Nei giorni scorsi, le note dichiarazioni della Lagarde, rese nella sua qualità di governatrice della Banca Centrale Europea, in seguito frettolosamente rettificate, hanno non solo fatto crollare letteralmente le borse, ma hanno anche fatto tremare gli Stati europei economicamente più deboli, siccome, tali dichiarazioni, decadenti e tristemente disancorate dal contesto, per non dire direttamente fuori luogo, sono apparse come il segno palese della riluttanza dell’Unione Europea ad intervenire nell’ipotesi di difficoltà dei membri meno “accreditati” a rinvenire acquirenti del proprio debito pubblico. Insomma, un po come dichiarare, “si arrangi chi può, chi non può affoghi”. Che dire? Emblema di incompetenza politica o bassa retorica riflesso di un nazionalismo arcaico e strisciante? Oppure, espressione di quello che Banfield qualificherebbe alla stregua di una sorta di “familismo amorale” che rifugge accuratamente dallo soddisfare l’interesse del gruppo, nella specie la sopravvivenza dell’UE nel suo complesso, se ciò non risponde al proprio interesse personalistico latamente inteso?

Direi le tre cose insieme purtroppo. Intanto, perché la micidiale freddezza di una dichiarazione di tal fatta, degna di Ponzio Pilato che a suo tempo seppe lavarsene bene le mani, è lo specchio non solo dell’incompetenza politica del soggetto dichiarante, incapace appunto anche solo di usare opportuni filtri comunicativi, ma anche l’espressione di una ideologia politico filosofica che nega l’esistenza stessa del principio di integrazione tra Stati attraverso la condivisione degli interessi economici. Quindi, perché il solo sottolineare che “nessuno dovrebbe attendersi che sia la BCE a essere in prima linea nella risposta al coronavirus”, ma debbono farvi fronte i singoli Stati facendo affidamento sul proprio bilancio, è la chiara espressione, ma anche l’altra faccia, il contrappeso, di una “consuetudine nazionalista” che si risolve nell’illiberale affermazione di valori che prescindono dalle necessità della realtà politica e sociale dei Paesi stranieri. Infine, perché l’immobilismo solidaristico, incautamente personificato proprio dalla neo eletta governatrice di una istituzione che è, o dovrebbe essere, il fulcro stesso dell’UE, è più che idoneo a portare avanti una politica di graduale eliminazione economica dei competitor potenzialmente più validi e meno propensi alla sudditanza economica nei confronti di Francia e Germania. Peccato solo che il Covid -19, oltre a seminare il panico, la disperazione, ed il senso di impotenza, ha pure contribuito a mettere in luce i limiti dirompenti del nazional-populismo quale filosofia politica di contenimento e di contrasto anche di una patologia evidentemente globalizzata con cui non solo l’Italia, ma anche la stessa Lagarde, la Germania, la Francia, l’America di Trump e l’Inghilterra, si troveranno presto a fare i conti in maniera più intensa. Se così non fosse, ovvero se non esistesse un egoismo nazionalista, nascerebbero forme di cooperazione rispettosa tra Stati “aperti”, senza frontiere, senza vincoli, ove l’unica alternativa utile all’emergenza sanitaria mondiale, sarebbe la condivisione in termini di mezzi, di tecnologie e di strumenti secondo l’esempio della Cina, o meglio, del mondialismo comunista cinese da sempre avversato dal Paperon de Paperoni americano attualmente residente nella Casa Bianca.

Ciò che intendo dire, più semplicemente, è, non solo che a un problema planetario debba darsi una risposta globale e non semplicemente e banalmente territoriale, ma anche che comunque si voglia considerare la questione, è più che chiaro che quando ci risveglieremo da questo incubo, nulla sarà come prima, saremo costretti al cambiamento volenti o nolenti, perché la pandemia ha contribuito a mettere in luce le negatività della gestione della cosa pubblica, rinchiusa nel paradigma del “fai da te” anche tra gli elementi costitutivi del medesimo Stato, ossia gli enti territoriali locali, quali le singole regioni italiane, egoisticamente, ma non per questo ingiustamente, portate all’auto reperimento dei mezzi per far fronte alle deficienze di un apparato centrale non opportunamente contestualizzato. Solo quando il solidarismo socialista sarà adeguatamente globalizzato, ossia diffuso sull’intero territorio nazionale, europeo e mondiale, allora, e solo in quel momento, si determineranno le condizioni per il cambiamento anche sul piano economico e per la ridefinizione della stessa Unione Europea, fino ad oggi ferocemente “nazionalista”, in chiave davvero “comunista”, ossia orientata alla condivisione economica, politica e sociale tra i propri Membri. Se si corre da soli si annaspa, laddove, invece, in un contesto caratterizzato da profonde diseguaglianze tra i vari sistemi sanitari, e tra questi e le singole sanità locali, solo una attività sinergica, coordinata e condivisa può rappresentare l’unica vera ed efficace risposta idonea a garantire anche una parità di trattamento tra i singoli degenti bisognosi.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato Nuoro)
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