Bisogna ripartire prima o poi, ma bisogna farlo con un modello preciso, rigoroso e che necessita di un'alta tecnologia.

Continua a ribadirlo Andrea Crisanti, virologo a capo del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova, in prima linea nella lotta al virus in Veneto e al lavoro con altri ricercatori in uno studio guidato dal matematico Neil Ferguson dell'Imperial College di Londra.

L'ideale, a detta dell'esperto, sarebbe sperimentare la riapertura in zone meno colpite dalla violenza del virus: "Senza il test di un modello non si può ripartire". E la Sardegna, dice a UnioneSarda.it, si presterebbe a questo tipo di test. O meglio, zone ancora più ristrette e con pochi contagi, come ad esempio le province di Cagliari e Oristano. Se il modello funziona si può estendere sul territorio nazionale, in modo graduale, fino a riaprire per ultime le zone rosse.

Ma non c'è il rischio che così si creino nuovi focolai?

"Assolutamente no. Il modello da testare si basa sull'implementazione di misure di tracciabilità informatica che potenziano la diagnostica e permettono di monitorare con rigore il contagio".

Può spiegarci meglio?

"L'idea è creare un'area protetta, una piccola zona anche all'interno di una città, appunto come Cagliari o Oristano, con una bassa incidenza di contagi. Un'area pilota, diciamo. Chiunque entri in questa zona deve avere a disposizione uno smartphone collegato a un'app".

Come funziona?

"Nel momento in cui X varca la zona protetta, l'app attraverso un sistema di geolocalizzazione tiene traccia di chiunque entri in collegamento con lui. Sarà utile nel caso in cui dovesse poi risultare positivo".

Un esempio?

"Mettiamo un camionista che porta la frutta: gli si fa il test, magari quelli rapidi in auto, che sono stati promossi dal ministero della Salute. Se risulta positivo si contattano tutte le persone che tramite l'app risulta che lo abbiano incontrato. In questo modo si può ripartire, perché il contagio è totalmente sotto controllo".

Non tutti hanno a disposizione uno smartphone. Come si fa in quel caso?

"Semplicemente non si può fare. L'area scelta deve essere tecnologicamente avanzata o quantomeno coperta. E' un elemento fondamentale, e non è l'unico".

Quali sono gli altri?

"I dispositivi di protezione individuale vanno garantiti a tutti, in primis operatori sanitari e lavoratori. Ancora, potenziare la capacità di fare tamponi in loco e a campione".

In Sardegna potrebbero mancare queste condizioni...

"Allora non si può fare. Parlando della Sardegna, ho fatto solo un esempio, facendo riferimento alla bassa potenza del contagio. Ma quelle condizioni (dpi, tamponi e tecnologia) sono imprescindibili".

A proposito di mascherine, a Cagliari il Comune ha "promosso", in caso di necessità, quelle "autoprodotte". Sono sicure?

"Direi proprio di no".

A che punto è la lotta all’epidemia?

"I contagi che si registrano oggi sono legati alle trasmissioni intrafamigliari o ai contatti con sanitari sintomatici a cui non viene fatto il tampone. Ecco perché sostengo che le mascherine andrebbero usate anche in casa, e andrebbero evitati i luoghi comuni, se tra le mura domestiche c'è qualcuno che manifesta sintomi, anche non gravi".

Non a tutti i sintomatici viene fatto il test...

"Lo so, sostengo da sempre che quando c'è un sintomatico è fondamentale sottoporlo a tampone. E i positivi che non richiedono il ricovero dovrebbero essere isolati in strutture ad hoc, come alberghi. Insomma, evitare il contagio il più possibile".

Come vede l'estate in arrivo?

"Purtroppo l'estate, o comunque i prossimi mesi, sono ancora un'incognita. I passi avanti ci sono, benché timidi, ma serve un'azione integrata. Come tecnici stiamo ancora valutando diversi scenari. Le decisioni spettano poi al governo".

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