Ancora una volta, ieri sera, Conte ha pensato bene di farsi presente nelle case di ciascuno di noi per offrire alla nostra attenzione i consueti lieti annunci.

In breve: ancora tutti a casa fino al prossimo 3 maggio. E malgrado l’Eurogruppo si sia concluso, nella serata di giovedì ultimo scorso, con un accordo, a mio parere piuttosto ambiguo, sia per la vaghezza dei suoi contenuti, sia per il chiaro riferimento al tanto vituperato fondo salva stati, tuttavia, il Premier si è fatto lecito di dichiarare, per l’ennesima volta, che, relativamente a siffatto ultimo aspetto, “la posizione del Governo non (sarebbe) cambiata”.

Nulla quaestio, se solo non fosse che alle opportune buone intenzioni originarie, tradotte nel motto “no Mes, si Eurobond”, non sono susseguite altrettanto conseguenti conclusioni per aver l’Italia incassato, al pari degli altri paesi membri, un Meccanismo Europeo di Stabilità, sia pure a condizioni rivisitate, utilizzabile, parrebbe, per un verso, solo da chi volesse farne richiesta, senza condizionalità, unicamente per sostenere non meglio precisate (e qui sta il problema che potrebbe nascondere la trappola) spese sanitarie dirette ed indirette, e, per altro verso, a sostegno dell’economia, ma attraverso il rispetto della consueta condizionalità.

E nulla quaestio, se solo non fosse per la inopportuna, considerato il suo consueto aplomb moderato, caduta di stile dello stesso Premier, concretizzatasi in un durissimo attacco in diretta tv ai vertici di Lega e Fratelli d’Italia, rei, a suo sindacabile dire, di essere gli artefici, seppure non è dato sapere come, del sostanziale fallimento dell’accordo in Eurogruppo.

Ed ancora nulla quaestio, se solo non fosse per la conseguente debolezza argomentativa del Presidente del Consiglio, oramai costantemente impegnato nella spasmodica caccia ai consensi piuttosto che nella gestione pratica del suo mandato, che null’altro è stato capace di trasmettere se non la consapevolezza non solo di non essere riuscito a conseguire un risultato apprezzabile nel confronto coi vari partner europei, ma anche, purtroppo, di non poterlo conseguire nel prossimo futuro.

Se questo è lo stato dell’arte, come per davvero sembra essere, possiamo pure metterci il cuore in pace, i giochi sono fatti. Ma, al di là di ogni riflessione sulla discutibile gestione di questa emergenza sanitaria, e al di là di ogni discrepanza tra l’intento istituzionale annunciato dal Governo e la sua tenuta in sede di discussione diplomatica, quale è il significato strategico, se ne esiste uno e se tale può essere definito, di questa sorta di compromesso storico esitato dalla riunione dell’Eurogruppo? Si tratta veramente di un accordo apprezzabile, e soprattutto utile, per l’Italia? Questa Europa si è rivelata, nella circostanza, davvero sinonimo di “solidarietà”, come fieramente si è affrettato a scrivere Gentiloni su twitter? Oppure, invece, l’Unione Europea, anche stavolta, altro non è riuscita ad esprimere se non il persistente ed incolmabile divario tra il nord ed il sud della sua compagine che da sempre si pone quale ostacolo insormontabile al processo reale di unificazione?

Purtroppo, la risposta a questi interrogativi, perlomeno dal mio umile punto di vista, non è proprio edificante, ma può essere comunque utile a rendere ragione dell’estrema difficoltà, per i nostri esponenti di governo, a prescindere dal loro colore partitico, nel condurre trattative con interlocutori tanto diversi per storia, ideologie e tradizioni. Intanto, perché, sul piano politico, e di conseguenza sociale, il fenomeno pandemico ha contribuito a sottolineare la circostanza, già tristemente a tutti nota, per cui l’Eurozona, non essendo affatto un’area economica a sviluppo uniforme, continua ancora oggi ad esprimere un incolmabile divario fra il suo nord ed il suo sud, il quale divario, a sua volta, si pone quale pesantissima concausa di quel processo di delegittimazione politica delle aree maggiormente colpite, tra le quali purtroppo l’Italia, inidoneo a conferire alla stessa un “potere contrattuale” particolarmente determinante. Quindi, perché, sarà pure banale, ma il fallimento di quel fondamentale processo di pareggiamento economico e sociale che sarebbe dovuto conseguire all’atto dell’introduzione della moneta unica, si è potuto “legittimamente” tradurre, pure davanti alla gravità della situazione contingente, nel persistente ed egoistico rifiuto, da parte dei paesi economicamente più forti, al ricorso di titoli comuni europei, inopportunamente definiti da Ursula von der Leyen, alla stregua di “slogan”. Poi, perché, sotto il profilo strategico, e sebbene nell’incuranza della circostanza che le scelte di oggi condizioneranno il quadro politico e sociale di domani, il netto rifiuto dell’impiego dei titoli comuni da parte di Paesi come la Germania e l’Olanda, nasconde, in realtà, non solo l’esigenza pura e semplice di preservare quanto più possibile la propria solidità politica interna, ma anche, sembrerebbe, un preoccupante sentimento di sfiducia nelle capacità gestionali dei Paesi finanziariamente più fragili e nella loro attitudine all’utilizzo consapevole del denaro. Infine, perché, allo stato, l’accordo in discussione, considerata la mancata menzione di qualsivoglia forma di condivisione del debito, scarsa utilità pratica sembra avere per l’Italia nonostante pure la previsione di una cassa integrazione europea e di ulteriori fondi per la Banca Europea al fine di favorire gli investimenti. A perdere, ancora una volta, sono, dunque, non solo gli italiani, sospesi tra uno Stato assente, siccome incapace anche solo di tradurre sul piano pratico i propri provvedimenti anti pandemici, e un’Europa che ancora non c’è per il continuo prevalere degli egoismi di Stato, ma anche la stessa UE, incapace di liberarsi dal bozzolo confederativo per divenire vera federazione.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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