Los Angeles, 1961. Alla Casa Bianca da pochi mesi si è insediato John Kennedy, e Martin Luther King riunisce sempre più proseliti nella sua battaglia per eliminare la discriminazione razziale negli Stati Uniti. Eppure, nelle strade delle metropoli e nelle campagne americane, la pelle nera continua a condannare uomini e donne all’emarginazione, alla ghettizzazione.

L’investigatore privato “black” Easy Rawlins non ha ancora abbandonato del tutto la speranza che l’America possa diventare un posto migliore, anche se nell’immediato deve pensare soprattutto a come arrivare a fine mese. Accetta quindi un incarico da parte di uno sconosciuto che gli chiede di ritrovare una donna scomparsa, Elizabeth Eady, detta Betty. Easy accetta perché non può sputare su duecento dollari anche se l’incarico gli puzza di fregatura e di pericolo lontano un miglio. Ma soprattutto Betty è la dea d’ebano che ha riempito i sogni di Rawlins quando era solo un ragazzino. È la donna che tutti gli uomini volevano e che nessuno riusciva a conquistare. Betty, così bella e così dannata, per la quale Easy è disposto a rischiare tutto. Anche la vita.

Degno erede di maestri dell’hard boiled come Dashiell Hammett e Mickey Spillane, Walter Mosley ci regala con "Betty la nera” (21lettere, 2024, Euro 17, pp. 256) un noir struggente ed elegante, che è insieme un grande romanzo giallo e un’istantanea di storia sociale, una testimonianza raccontata in presa diretta della condizione dei neri nell’America del Dopoguerra. Mosley, con crudo realismo, narra, in soggettiva, usando la voce e i pensieri del suo protagonista, una società, quella americana, dove vince sempre il più forte, il più violento, il più ricco. Una società dove il bianco conta più del nero, il ricco più del povero, il maschio più della femmina. Racconta, così, una umanità abituata alla violenza, alla sopraffazione, perché costretta ad accettare la discriminazione e l’ingiustizia. Una umanità dove a regnare è una legge spietata, riassumibile nel detto latino homo homini lupus.

Un universo ingiusto di cui Easy Rawlins conosce a fondo le regole. Ha imparato fin da bambino cosa significa essere black in un’America dominata dai bianchi. Sa che a qualunque tavolo da poker in cui si troverà a sedere con un bianco gli saranno servite delle carte truccate. Non è però tipo da farsi mettere i piedi in testa. Ha fatto la guerra, ha imparato a valutare gli esseri umani e soprattutto non è più disposto ad accettare le ingiustizie, soprattutto se sono perpetrate da chi pensa che gli esseri umani si debbano giudicare dalle sfumature della pelle. Non è un giustiziere, né un Don Chisciotte. Non vuole essere un eroe, però non riesce a fare a meno di pensare che ci siano cause che meritino l’eroismo, il rischio, la paura, il dolore.

A questo protagonista, così umano, così vero, così lontano da losers e antieroi stereotipati, Mosley dona un’amarezza di fondo che non diventa mai disperazione, né disillusione, né tanto meno cinismo. Fa muovere il suo protagonista dando l’impressione che sia il destino, il fato o il caso a determinate le sue giornate e le sue azioni. Easy però continua a scegliere, a decidere, ad agire, in nome di una onesta di fondo che potremmo chiamare giustizia. Alla fine, non tutto si sarà aggiustato e non tutto andrà per il verso giusto, però la vita è questa e per il nostro protagonista vale la pena viverla… o morire mentre si cerca di fare la cosa giusta.

La copertina
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