Estro, originalità, appartenenza. Anche un pizzico di anarchia. In realtà il nome di un vino non si muove solo all'interno di queste ampie coordinate. Latitudine e longitudine del battesimo di una bottiglia, etichetta compresa, toccano spesso anche la sfera goliardica, irriverente e provocatoria. Diciamo, da fascia protetta per i riferimenti sessuali inequivocabili. Gino Veronelli, per esempio, non ebbe alcun pudore (ci mancherebbe) a presentare, una ventina di anni fa, un vino Merlot spremuto in provincia di Lucca. Gino "Fuso" Carmignani, il produttore, lo ha chiamato Merlo della Topanera. Un modello per stare tra i più composti. Noi in Sardegna, rispetto alla scuola toscana, per esempio, siamo dei bravi chierichetti. A parte "Bagasseri", prodotto da uve Cagnulari da Enrico Melis a Barrali, il resto dell'anagrafe enologica sarda è strettamente legato al richiamo del luogo (toponimi) e all'estro originale del produttore. Vasco Ciuti, consigliere nazionale Onav e presidente della sezione di Cagliari dell'Organizzazione assaggiatori, spiega che in Sardegna «la tendenza è quella di dare al proprio vino, quello che si ritiene il più importante della produzione, il nome che richiama il territorio, l'area, il luogo dove è impiantato il vigneto». Uno fra tutti il Turriga: il vino della Cantina Argiolas ha nell'etichetta la Grande Dea Madre, la più importante divinità femminile della Sardegna prenuragica. La versione più nota è quella rinvenuta nei pressi di un villaggio nuragico, appunto, nella località Turriga, tra Ortacesus, Selegas e Senorbì. «Ma gli esempi di nomi legati alla toponomastica o all'archeologia possono essere tantissimi» continua l'esperto. Sa Perda Pintà è la stele incisa con cerchi concentrici di epoca neolitica ritrovata a Mamoiada. Ed è anche il nome che Giuseppe Sedilesu, vignaialo di Mamoiada, ha voluto affidare al suo vino bianco prodotto da uve Granazza. C'è San Costantino della Poderi Parpinello di Alghero, un Cannonau nato nella tenuta omonima, eccellenza dai tanti riconoscimenti internazionali. Barrua di Agricola Punica riprende il nome della frazione di Santadi, avvolta nella natura del Sulcis e ricca di siti archeologici. O Anghelu Ruju, la necropoli prenuragica rinvenuta ad Alghero, nome con cui la cantina Sella&Mosca ha battezzato il primo vino liquoroso fortificato dell'Isola. Nuracada, il Bovale in purezza della giovane cantina Audarya di Serdiana, richiama la località omonima dove Salvatore e Nicoletta Pala, i titolari dell'azienda, curano con passione il vigneto da cui nasce quel vino. Insomma c'è da perdersi a ripercorrere le strade della toponomastica sarda che incrociano con quelle del vino e dei suoi nomi. In fatto di originalità e audacia, merita un posto di tutta evidenza Gianfranco Manca, agricoltore di Nurri e filosofo della vigna. Lui ha fatto scuola. «È un anarchico - spiega Ciuti - in tutte le sue espressioni. La sua cantina si chiama Panevino e richiama la tradizione familiare di panificatori e quella di viticoltori. Le sue bottiglie sono creazioni uniche. Vini personali, diversi anche nell'etichetta da un anno all'altro». Con nomi davvero creativi «Axina 'e 'ixinau, Shugusucci oppure Alvas. Estrema unicità anche nella cura delle etichette». Variazioni sul tema nel Sulcis. Un giorno Gavino Sanna, artista della comunicazione e fondatore (sebbene astemio) della Cantina Mesa davanti a Porto Pino raccontò come nascono le sue bottiglie, nere come le donne sarde vestite con i loro scialli. «Quando mi dissero che il Carignano produce un vino dal bel colore rosso scuro, ho deciso di chiamarlo Buio. Sarà Buio Buio invece quello affinato in botte».

La cantina Quartomoro di Luciana e Piero Cella ha cercato la strategia nell'essenza. Chi si sarebbe mai sognato di chiamare i propri vini con una combinazione di sole consonanti? Difficile da ripetere quanto un codice fiscale. Eppure ha avuto ragione l'esperto enologo di Arborea. «Ha scelto di mettere in risalto nei nomi dei vini la sua professionalità. Il Carignano (CRG), il Bovale (BVL), il Monica (MNC), il Vermentino (VRM) diventano sigle, una genialata», commenta Vasco Ciuti. Del vitigno resta la percezione fissata nella nostra memoria. Una persistenza. Non da meno lo studio nato nella cantina di Mora&Memo a Serdiana. Cosa c'è di più quotidiano e domestico di una bottiglia di vino che vive nelle nostre case e sta a tavola con noi. Elisabetta Pala, 33 anni, ha puntato sulla confidenza diretta, l'amicizia. I suoi vini si chiamano con diminutivi come capita in famiglia. E se lei è Betta, il suo Vermentino si chiama Tino; il Cannonau, Nau. Ica è Monica. Sull'etichetta le "bandidas" di Katia Marcias, giusto per non dimenticare un'Isola matriarcale. Elisabetta Pala, presidente regionale delle associazione Le donne del vino, è la Mora di Sardegna, che non dimentica i valori antichi della tradizione, Memo.
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