Fu un clamoroso scandalo giudiziario che scosse dalle fondamenta la Francia a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento. Allo stesso tempo fu il primo caso mediatico della storia, la prima occasione in cui la carta stampata mostrò di potere orientare l’opinione pubblica e gli intellettuali si schierarono in difesa dei diritti umani. Parliamo dell’Affaire Dreyfus, naturalmente, una vicenda in cui antisemitismo, giochi di potere e intrighi politici si intrecciarono in maniera sordida. Per i pochi che non lo conoscessero si trattò di un caso giudiziario che ebbe risonanza nell’intero continente europeo. Nel 1894 un capitano dell’esercito francese, Alfred Dreyfus, di origine ebraica, fu dichiarato colpevole di spionaggio a favore della Germania e condannato ai lavori forzati. La sentenza però lasciava molti dubbi e il cosiddetto affare Dreyfus spaccò la Francia in due. La destra nazionalista e cattolica, antisemita e ostile al governo repubblicano, si appellò al prestigio dell’esercito e cercò in ogni modo di screditare l’immagine del governo repubblicano in quel momento al potere, vagheggiando un ritorno alla monarchia. Le forze repubblicane e numerosi intellettuali molto famosi, come il romanziere Émile Zola, si schierarono in difesa di Dreyfus. Lo scontro si inasprì al punto che le sinistre e i repubblicani formarono un blocco politico unitario per respingere nuovi colpi di mano dei reazionari: questa coalizione conquistò il potere nel 1899 e vi rimase per un quindicennio. Dreyfus infine ottenne, sulla spinta dell’opinione pubblica sensibilizzata dalla stampa e dagli intellettuali dell’epoca, la revisione del processo e fu riconosciuto innocente. Risultò infatti che i responsabili dello spionaggio erano ufficiali dello Stato maggiore, ben più in alto di lui, che avevano montato l’accusa per salvare sé stessi.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

A più di un secolo da un episodio fondamentale per la formazione della coscienza europea lo scrittore Piero Trellini fa rivivere i protagonisti della vicenda e il clima storico, sociale e culturale dell’epoca nel suo monumentale, ma godibilissimo “L’Affaire” (Bompiani, 2022, pp. 1376, anche e-book). Un libro in cui i protagonisti sono, oltre al capitano Dreyfus e ai suoi accusatori, Proust, Zola, Rodin, Clemenceau, Degas e molti altri (compreso Oscar Wilde). Per tutti loro, artisti, intellettuali, futuri primi ministri e premi Nobel, quella formidabile crisi rappresenterà una stagione irripetibile. La più grande della vita.

A Piero Trellini chiediamo: come è nata l’idea di occuparsi del caso Dreyfus?

“Il primo germe risale al lontano 1998. Era il centenario del J’accuse…! di Zola. Sono partito da un trafiletto. L’affaire è soprattutto una vicenda che ha diviso un mondo, creando un prima e un dopo. Mi interessava dunque capire cosa fosse accaduto alle persone che ne erano state travolte. Come avessero vissuto inizialmente e come si fossero poi trasformate. L’idea è rimasta nella testa. Dopo una lunga fase di studio ho iniziato a buttare giù un’ossatura. L’intenzione era di creare un affaire vivo, corale, fatto di quotidianità, senza limitarmi a raccontare unicamente i meccanismi degli intrighi o i fatti procedurali, perché non avrebbe avuto molto senso. Da lì non mi sono più fermato”.

Quanto è ancora attuale questo caso tanto famoso a più di un secolo di distanza dagli eventi?

“Ai tempi dell’affaire c’era già tutto il nostro presente. Nel giro di un pugno di anni erano nate la lampadina, la radio, il telefono, il cinema e la macchina da scrivere. Tutto quello che oggi è contenuto nei nostri smartphone. Ma le attuali comodità non cambiano i meccanismi degli animi umani che sono rimasti identici. L’origine della nostra era avvenne proprio durante quei mesi febbrili grazie anche alla ferrovia e al telegrafo che cambiarono i parametri del tempo e dello spazio, veicolando, a velocità impensabili, cultura e informazione. A far muovere le notizie c’erano poi cerchie ramificate che gravitavano intorno a salotti e caffè. Ed ecco che abbiamo la rete, i social, il tempo reale. Fu attraverso questi nuovi strumenti che vennero ‘brevettate’ inedite campagne per manipolare l’opinione pubblica. E quelle tecniche ancora oggi sono rimaste intatte”.

Il caso Dreyfus è considerato uno spartiacque sotto molti punti di vista... Segnò e rivoluzionò la società dell’epoca. Quali sono le maggiori eredità di quegli eventi?

“L’affaire portò alla definitiva sconfitta dell’Ancien Régime e alla separazione tra Stato e Chiesa. Presentò soprattutto la prima grande battaglia politica condotta attraverso i media, con l’affermazione della figura dell’intellettuale impegnato e l’esplosione di una stampa capace di creare opinione. Segnò poi l’inserimento della donna nella vita pubblica, generò la nascita del concetto di ‘diritti umani’ e rappresentò la prima lotta collettiva contro l’antisemitismo in Francia. Sono le basi di tutto il nostro presente. Ma dall’affaire ebbe origine anche il movimento sionista che avrebbe portato alla nascita dello stato di Israele. Per non parlare del resto, il libro lo racconta nei dettagli: la fine dell’Impressionismo, la creazione delle ninfee di Monet, l’invenzione del Tour de France, la realizzazione della prima serie cinematografica. E non dimentichiamoci che è l’affaire lo sfondo dell’intera Recherche proustiana”.

Che ruolo ebbero gli intellettuali e l’opinione pubblica in quella vicenda?

“Determinante ma non esclusivo. Se il gesto per eccellenza – il celebre J’accuse…! – fu quello di Zola, la sua stessa azione fu anticipata, un paio di mesi prima, dallo storico Gabriel Monod, e, tre giorni prima, dal chimico Pierre-Émile Duclaux, entrambi autori dei primi interventi pubblici in un dibattito morale. Furono loro, due accademici, a esporsi creando così il precedente. Gli scienziati, poi, ebbero un ruolo cruciale. Toccò infatti a loro il compito di smentire quel mare di falsità che avvolgeva la vicenda. E alla fine fu una formula matematica a riabilitare definitivamente Dreyfus.”

Oggi intellettuali e opinione pubblica saprebbero agire e fare pressione come ai tempi di Dreyfus?

“Saprebbero. Ma questo non significa necessariamente riuscire a incidere nella storia”.

Quale registro di scrittura ha tenuto per questo suo lavoro? In che modo ha lavorato sul suo linguaggio?

“Ho cercato di adottare un approccio dall’alto, utilizzando ironia e compassione. La prima mi ha aiutato ad accelerare il ritmo, la seconda a seguire quegli uomini come fossero formiche. Quando si sa già come va a finire si vedono le cose in modo diverso. Ma ho sentito spesso il desiderio di scendere a terra, per trovarmi al fianco di quegli uomini nei tavoli dei caffè, nelle scrivanie delle redazioni, nelle poltrone dei ministeri o nei divani dell’alta borghesia anche solo per rubare una frase, un’espressione, un’emozione. Impresa resa possibile solo grazie al continuo incrocio di informazioni ricavate da lettere, diari, memorie e giornali. Non volevo romanzare nulla. E d’altronde non ce ne sarebbe stato bisogno. I dialoghi, le espressioni e i gesti esistono già. Basta cercarli”.

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