Nata da padre francese e madre sudcoreana, cresciuta a cavallo tra Parigi e Seoul, Élisa Shua Dusapin esplora nei suoi romanzi la mescolanza delle culture, il tema dell’identità, la difficoltà di comunicare, anche tra familiari nel momento in cui si appartiene a culture diverse. Nel suo più recente lavoro tradotto in Italia, “Le biglie del Pachinko” (Ibis Edizioni – Finis Terrae, 2021, pp. 144), la ventinovenne Claire, cresciuta in Francia, sta passando l’estate con i suoi nonni a Tokyo. I due anziani gestiscono un salone di Pachinko, un gioco d’azzardo a metà strada tra la slot machine e il flipper, da quando decenni prima sono fuggiti dalla natia Corea. Claire spera di riportarli nel Paese natale che i due non hanno più rivisto dopo la fuga. Mentre i giorni delle vacanze passano e il tempo trascorre tra noia e lezioni di francese alla piccola Mieko, la giovane donna fatica a entrare in relazione con i nonni…anzi non riesce neanche più a ricordare la loro lingua. Come potrà trovare la sintonia giusta per convincerli a intraprendere un viaggio che da soli non hanno mai voluto fare?

Anche in questo libro la Dusapin eccelle nel descrivere l’ambiguità delle relazioni familiari, le sottili incomprensioni che vanno di pari passo con un profondo attaccamento. Ed emerge il tema della difficoltà di comunicare tra persone che pur appartenendo alla stessa famiglia fanno parte di culture diverse.

Ma in che modo è possibile trovare una vera comunicazione quando si appartiene a mondi lontani? Lo chiediamo direttamente a Élisa Shua Dusapin.

“Proprio questa è la domanda che c’è a monte del romanzo e non trova risposte definitive. Mi sembra che i miei personaggi possano davvero comunicare solo quando riescono a incontrarsi a livello emotivo, quando la condivisione di un'esperienza di vita fa entrare l'altra persona in risonanza con qualcosa di intimo, che le permette di capire meglio l'altra persona al di là delle differenze culturali e delle competenze linguistiche. Quando le persone fanno conversazioni intellettuali e razionali, finiscono per incappare nelle barriere dovute a queste differenze, e le loro storie e le loro ferite impediscono di aprirsi agli altri”.

Avere radici famigliari così ramificate come è successo a lei, che è di padre francese e madre sudcoreana, significa poter attingere a più risorse oppure portare il peso di più culture sovrapposte?

“Per molto tempo, ho considerato le mie origini come un handicap; le differenze culturali erano un problema in famiglia e sono cresciuta in un piccolo villaggio svizzero dove eravamo gli unici stranieri. Ho sofferto di razzismo a scuola al punto da dover cambiare istituto. Ma crescendo, mi sono resa conto di quanto io sia fortunata a provenire da culture diverse. Questo mi permette di allargare il mio punto di vista, la mia comprensione degli altri e del mondo, in una certa misura. Ho cominciato a scrivere quando avevo diciassette anni e la scrittura è stata una via per esplorare questi problemi. Vi ho trovato dell'ossigeno”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Quanto conta la lingua, potersi esprimere nello stesso idioma quando si vuole costruire una relazione anche tra persone di cultura diversa?

“Mi sembra che i miei personaggi dimostrino che la condivisione di una lingua non porta necessariamente a una migliore comunicazione, né se si appartiene alla stessa famiglia o alla stessa cultura né se si è perfetti sconosciuti. Infatti, ogni parola è investita da una storia - personale, familiare, culturale - che è diversa da una persona all'altra, e la capacità di capirsi tra due persone dipende, a mio parere, più dall’apertura, dall’empatia, dall’intelligenza emotiva, dalla conoscenza acquisita attraverso l'esperienza che non dalla teoria. Il problema deriva dal fatto che, in generale, crediamo che tutto dipenda dalla padronanza della lingua.

Che valore ha per lei tornare ai luoghi d’origine e quali sono i suoi luoghi d’origine?

“Ho viaggiato molto tra l'Asia, l'Europa e gli Stati Uniti, dove vive la mia famiglia, da quando avevo tredici anni. Era quasi un bisogno fisico, volevo cercare di trovare me stessa da qualche parte. Oggi non sento più questa necessità perché mi sembra che la scrittura sia diventata il mio territorio intimo, quello in cui mi riconosco, indipendentemente da un luogo geografico, da una cultura”.

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