Quando si parla di alimentazione del futuro vengono a volte evocati scenari molto “arditi”. Secondo alcuni esperti, infatti, i problemi alimentari del futuro verranno risolti dagli insetti, che già oggi vengono consumati in ben 1400 specie da due miliardi di persone (soprattutto in Asia). Gli insetti sono ricchi di proteine, grassi, ferro e zinco. Una buona alternativa alla carne e meno inquinante…a patto di avere lo “stomaco” di metterli in bocca. Gastronomia estrema, che è facile considerare una curiosità. Meno semplice immaginare piatti a base di insetti sulle nostre tavole. In fondo, quando si tratta di cibo siamo molto tradizionalisti e prima di mettere in bocca qualcosa di non conosciuto ci pensiamo non una, ma cento volte.

Insomma, non si può fare a meno di mangiare, però l’essere umano si è evoluto fino ai nostri giorni anche grazie a un timore istintivo: quello legato al cibo. Come ci racconta Alberto Grandi nel suo ultimo saggio intitolato “Storia delle nostre paure alimentari” (Aboca, 2023, pp. 252, anche e-book) è l’esperienza, il ricordo di ciò che è successo dopo aver ingerito un alimento a determinare la fiducia o la sfiducia nei suoi confronti.

La possibilità di assumere sostanze tossiche con un alimento – perché mal conservato oppure sconosciuto – è sempre molto concreta ed è quindi naturale che ogni essere vivente abbia sviluppato sistemi e processi automatici per valutare i potenziali rischi insiti nell’atto di nutrirsi. Insomma, molte paure alimentari di oggi sono solo l’ultima versione delle paure che l’uomo ha sempre avuto.

Un esempio di quanto stiamo dicendo? Il pomodoro. Possiamo pensare alla cucina italiana senza questo alimento? Oggi assolutamente no. Eppure, questo frutto fino alla scoperta dell’America era sconosciuto nel nostro continente. Dopo l’arrivo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo numerosi prodotti attraversarono l’Atlantico e giunsero in Europa a bordo delle navi spagnole e portoghesi. L’elenco è lungo e forse sorprendente: il mais, la patata, tante varietà di fagioli, l’arachide, il peperoncino piccante, alcune varietà di peperone, alcune tipologie di zucca, il cacao e la vaniglia e, appunto, il pomodoro. L’impatto di questi cibi sulla cultura alimentare europea è stato enorme.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

L’affermazione dei prodotti americani nella cucina europea non fu però immediata. Il pomodoro, per esempio, in un primo momento fu utilizzato unicamente come pianta ornamentale e si credeva che un suo consumo eccessivo potesse nuocere alla salute. Solo a partire dal Settecento e ancora di più nell’Ottocento divenne un alimento fondamentale, presente su ogni tavola che si rispetti non solo in Italia ma un po’ in tutto il mondo. Stesso destino per il mais e la patata che solo dopo molto tempo dal loro arrivo in Europa entrarono a far parte dell’alimentazione popolare, in alternativa al pane e ai prodotti a base di farina di frumento, e che si rivelarono fondamentali per sconfiggere definitivamente il flagello della fame.

Il mais venne tenuto lontano dalla tavola perché inizialmente veniva usato solo per gli animali e quindi solo per loro poteva andare bene. Fu, invece, uno dei più spietati conquistadores, Francisco Pizarro, a portare la patata nel nostro continente nel 1535 dove venne guardata con molto sospetto. Per prima cosa era cibo da Indios, che per gli Europei di allora non erano neppure dotati di anima. Figurarsi se c’era da fidarsi di quello che mangiavano. Inoltre della patata nella Bibbia non vi era traccia e quindi meglio morire di fame e aspettare la manna dal cielo. All’inizio poi molti la mangiavano così com’era, senza cottura, con esiti catastrofici. Altra usanza pericolosa legata all’ignoranza di fronte a questa novità d’Oltreoceano era quella di consumare le foglie della pianta, molto velenose. Così si diffuse la diceria che la patata fosse un poco stregata e dalle virtù malefiche. Meglio evitarla e tenerla tutt’al più come pianta ornamentale. Così per lungo tempo le patate servirono al massimo per gli animali oppure venivano consumate da chi voleva fare penitenza, come i carmelitani scalzi oppure i certosini. O venivano servite per i più poveri e i derelitti negli ospizi e negli ospedali. Quando però c’è di mezzo la fame le cose cambiano e si deve fare di necessità virtù. Così, quando il destino del nostro povero tubero sembrava essere quello di ingrassare i maiali, venne la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) in cui l’Europa si ridusse a un immenso cimitero tra stragi ed epidemie. La patata, resistente e facile da coltivare a tutte le latitudini, divenne l’ancora di salvezza per molti stremati dalla fame, soprattutto in Olanda, Prussia, Inghilterra e Irlanda. Si imparò a cucinarla e le carestie divennero così meno frequenti e devastanti grazie a questo prezioso alimento.

Alberto Grandi ripercorre queste e molte altre vicende curiose, dalla paura della lebbra suina (una malattia inesistente), a quella per la farina bianca, fino alla stigmatizzazione degli OGM, degli insetti e della carne coltivata, tenendo insieme scienza, superstizione, politica, economia ed ecologia, perché oggi produrre cibo per otto miliardi di persone non è solo una questione sanitaria, è soprattutto un tema che mette in gioco la salvezza dell’intero pianeta. Ma soprattutto l’autore – animatore del podcast DOI-Denominazione di Origine Inventata, in cui ha ripercorso la storia della cucina italiana insegnandoci a distinguere la verità dalle narrazioni pubblicitarie – ci dimostra come le paure alimentari abbiano condizionato lo sviluppo economico e sociale delle varie regioni nel mondo, con particolare attenzione all’Europa e in generale a quello che chiamiamo Occidente.

Veramente “siamo ciò che mangiamo”, come diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, perché cosa c’è di più naturale, di più culturale, di più sociale e di più politico che mangiare?

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