Quanto sappiamo davvero del Giappone? Lo possiamo scoprire ascoltando Yamato, un podcast prodotto da Emons Record e disponibile sull’App Emons, sulle piattaforme Spotify, Google podcast, Apple podcast, Spreaker.  

Intanto, per capirci, Yamato è l’antica parola che identifica il primo regno giapponese, quel nucleo di territorio da cui è nato il paese del Sol Levante.

In otto puntate da venti minuti circa Giorgia Sallusti propone quindi un viaggio in questo paese tanto affascinante, così come non ve lo hanno mai raccontato. Prendendo come spunto luoghi comuni, Yamato approfondisce numerosi aspetti della cultura giapponese e della sua tradizione millenaria. Dal sushi ai samurai, dal significato dei ciliegi in fiore alla cultura del lavoro, passando per la filosofia zen, la letteratura, i manga, i cartoni animati e i videogiochi.

A Giorgia Sallusti, yamatologa, studiosa di cultura giapponese, chiediamo prima di tutto di raccontaci come è nata la sua passione per il Giappone.

«Direi che i cartoni animati della mia infanzia anni Ottanta del Novecento hanno lanciato una suggestione che è cresciuta a dismisura col tempo. Dal 1978 l’Italia era il primo paese per numero di cartoni animati giapponesi trasmessi in Tv, con punte di otto ore quotidiane suddivise tra più emittenti e io credo di averle passate tutte davanti al televisore. Ho continuato a masticare Giappone coi manga durante l’adolescenza, e poi finalmente all’università in cui ho studiato sia la lingua, sia la cultura giapponese. E da allora non ho mai smesso di studiare».

Da uno a dieci quanto ne sappiamo noi italiani del Giappone?

«Ne sappiamo un bel po’ da un punto di vista squisitamente pop, proprio grazie agli anime e ai manga che sono arrivati, soprattutto dopo gli anni Novanta, quando c’è stata un’apertura editoriale verso le produzioni giapponesi. Conosciamo superficialmente un po’ di questo e un po’ di quello, il sushi, i kimono, i samurai, anche se manca l’approfondimento. Abbiamo negli occhi un’immagine che spesso è uno stereotipo che risente di una visione coloniale ed esotizzante, basti pensare all’idea della geisha ricalcata sulla Madama Butterfly di Puccini. L’idea del podcast Yamato è nata proprio per scardinare queste idee un po’ ammuffite, e fare un tuffo verticale in ogni argomento. Credo però che le persone più giovani – di me sicuramente – siano più preparate e con meno pregiudizi, perché hanno un accesso al mondo giapponese più aperto e libero di quello che ho avuto io».

Tra i tanti stereotipi diffusi sul Giappone e i Giapponesi, quale le dà più fastidio o trova maggiormente campato per aria?

«Uno dei nodi più importanti è dove il femminismo si interseca con una visione decoloniale. Prendiamo per esempio la Madama Butterfly che citavo prima. Butterfly è definita attraverso qualità tradizionalmente associate dalla cultura occidentale alla donna nipponica, o ‘orientale’; e così la Butterfly docile e sottomessa entra nell’immaginario dell’esotico fino a dominarlo del tutto. Il potere duraturo di questa costruzione culturale è evidente anche nelle rielaborazioni più tarde degli stessi stereotipi della geisha e della donna orientale, in contesti politici e culturali diversi, come il film Sayonara di Joshua Logan, la M. Butterfly di David Henry Hwang del 1988, o il musical Miss Saigon di Claude-Michel Schönberg e Alain Boublil».

Yamato, la cover del podcast
Yamato, la cover del podcast
Yamato, la cover del podcast

Ma i giapponesi mangiano il sushi?

«Sì, altrimenti non lo mangeremmo nemmeno noi. La pietanza sbarca in Giappone dalla Cina nell’ottavo secolo, e lo scopriamo grazie alla presenza della parola ‘sushi’ nel codice Yōrō, che è una collezione di regole di governo compilata nel 718. Ma la fortuna del sushi arriva più tardi: così come lo conosciamo oggi appare nella città di Edo – ovvero nell’odierna Tōkyō – all’inizio del XIX secolo. Lo troviamo già venduto sulle bancarelle in strada. Si dice che a creare il nigirizushi – cioè il sushi preparato con le mani, nella forma in cui è possibile gustarlo anche oggi – sia stato lo chef conosciuto come Yoshi, vissuto nella prima metà dell’Ottocento. Si dice anche che sia suo il famoso nigirizushi ‘allo stile di Edo’. Questo chef è così lungimirante da cogliere i gusti dei suoi concittadini meglio di tutti gli altri, preparando un piatto che non solo è consumato ancora oggi nello stesso modo, ma che ha travalicato i confini del paese ed è arrivato ovunque, anche nei nostri piatti. Tuttavia, il sushi è appannaggio esclusivo del cuoco specializzato, o itamaesan, che significa letteralmente ‘il signor davanti-al-tagliere’. Per mangiarlo fatto in casa, occorre prepararne una versione semplice, arrotolata nell’alga nori: il norimaki».

Come mai, a suo parere, i manga piacciono tanto in Occidente?

«Ho impressione che i manga piacciano ovunque. Io stessa ne subisco il fascino da quasi quarant’anni. È con i manga, e con i cartoni animati che ne derivano, che ho imparato che una ragazza può fare tutto come e forse anche meglio di un uomo, e me l’hanno insegnato Lady Oscar, Lamù, La stella della Senna. Inoltre, le emittenti italiane hanno attraversato una congiuntura politica favorevole all’arrivo dei cartoni animati giapponesi: nel 1976 si favorisce la liberalizzazione delle frequenze televisive e nasce un universo di reti private, e tutte si ritrovano a dover riempire moltissime ore di programmazione quotidiana. Per fortuna in quegli anni c’era una quantità enorme di serie animate provenienti dal Giappone, lanciate sul mercato a prezzi estremamente competitivi e che hanno bisogno solamente dei costi di doppiaggio; sono cartoni animati creati con una tecnica migliore rispetto a quelli europei e americani, sono una novità e in più hanno trame e stili originali. I cartoni traineranno quindi il successo dei manga qualche anno più tardi, fino a oggi che sono presenza costante nelle classifiche editoriali».

Ma i giapponesi hanno interesse per l’Italia?

«Credo di sì, non di rado si trovano brand italiani tra quelli più conosciuti, o grande entusiasmo per l’opera lirica, l’arte e la cucina. Il rapporto tra Giappone e Italia va parecchio indietro nel tempo: la prima delegazione giapponese arriva in Italia in missione diplomatica nel 1585, dopo un viaggio di tre anni».

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