Nel 2021 cinque donne della Valle Aurina, in Alto Adige, quasi ai confini con l’Austria, sono state accusate e incarcerate per violenze fisiche e psicologiche sui propri figli. I bambini, segregati in fattorie di montagna, coinvolti in riti e deprivati del sonno, venivano costretti a pregare di notte e a subire punizioni e sevizie per assecondare i precetti di una morale intransigente e fanatica. Nel corso delle indagini è emersa un’affiliazione delle donne a un gruppo religioso, chiamato “Nuovi Cristiani”, che si è detto estraneo ai metodi coercitivi usati sui bambini, ma che sembra avere tutte le caratteristiche di una vera e propria setta.

Proprio da questo fatto di cronaca è partita Romina Casagrande per costruire il suo nuovo romanzo I quattro inverni (Garzanti, 2025, pp. 369, anche e-book) un racconto capace di toccare le corde più profonde dell’anima grazie alla sua drammaticità. Immaginate, infatti, di scoprire che tutto ciò che sapete della vostra infanzia è falso. È quanto accade a Maia: cresciuta con genitori adottivi, non si è mai fatta troppe domande sulle sue origini. Ma Maia è incinta e, per proteggere il futuro della bambina che porta in grembo, ha bisogno di conoscere il proprio passato. Nella soffitta di casa c’è un baule che si è sempre guardata dall’aprire. Ora, però, decide di farlo. Al suo interno, trova fogli scarabocchiati, articoli e qualche fotografia. Sono i primi indizi che deve mettere insieme, i tasselli del grande puzzle della sua infanzia. Ci sono porte che, una volta aperte, non possono più essere richiuse. Quei documenti non le lasciano dubbi: deve partire. E così, senza chiedere il permesso a nessuno, si mette in viaggio verso il Trentino-Alto Adige. Lì, ricostruisce a poco a poco la sua storia. La storia di sua madre. La storia delle donne e dei bambini con cui viveva segregata in una fattoria nascosta tra le montagne. Maia così impara che non tutte le famiglie sono sicure e affettuose come quella in cui è cresciuta. Alcune possono nascondere pericoli oscuri.

A Romina Casagrande chiediamo allora quale è stata la spinta per scrivere un romanzo che tocca corde così intime e anche così dolorose:

«È iniziato tutto dal caso di cronaca della Valle Aurina e dalle testimonianze emerse, che avevano la forza di pugnalate. Ho trovato nella storia delle donne accusate qualcosa di molto potente che mi è rimasto in testa per giorni insieme alle parole pronunciate dai loro figli. Da qui l’idea del romanzo. Mi è sembrato il modo più onesto, e a me più vicino, di raccontarle senza cadere nei pregiudizi».

Cosa spinge Maia nella sua ricerca delle proprie radici?

«Se ogni racconto è un atto di ricostruzione, il tentativo di dare senso al tempo, qui seguiamo una protagonista che affronta il passato non solo come memoria, ma come necessità. I rapporti familiari in cui Maia è cresciuta, le imposizioni della setta, sono elementi che riprendono il fatto di cronaca su cui si basa il romanzo e da cui scaturiscono molte delle domande a cui ho cercato di trovare una risposta interrogando alcuni protagonisti della vicenda. Un’amicizia femminile, tra donne determinate eppure fragilissime, deluse, arrabbiate, che credono in una narrazione del bene e del male che finisce per plasmare il loro mondo e quello delle persone che più amano, i loro figli: è estremo, come la scelta di isolarsi, eppure nessuno di noi può dirsi davvero salvo dall’inganno della manipolazione, dall’ambiguità dei sentimenti, dall’amore come forza che può elevare ma anche possedere».

Nel romanzo lei parla di amore, soprattutto di amore materno...quando questo amore si trasforma in qualcosa di malato?

«Quando la paura di perdere l’altro diventa più grande dell’amore stesso, questo può trasformarsi in ossessione, in controllo. Le donne accusate sono insieme vittime e fautrici di un sistema autoritario che manipola la mente, le emozioni, e che per prime hanno subìto. Il potere non è solo coercitivo, ma anche produttivo: crea realtà, identità e persino credenze. Questa tensione tra controllo e libertà, tra paura e amore, è molto forte nel romanzo. E, su tutti, l’amore materno, una forza primordiale, capace di costruire mondi e di distruggerli. Resta da chiedersi se sia possibile liberarsi davvero da ciò che ci ha formati, o se la libertà sia solo un’illusione che riorganizza vecchie catene. A questo si lega un’altra domanda: dove finisce la fede - non solo spirituale, ma anche verso gli altri - e dove inizia la manipolazione? E siamo davvero in grado di accorgercene quando siamo dentro?».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Come definirebbe Maia, la protagonista del romanzo?

«Maia è un personaggio di finzione, anche se, da qualche parte, esiste davvero. Crescere in un ambiente dove l’amore è condizionato da regole rigide e dalla paura per Maia significa anche dover ricostruire da adulta, pezzo per pezzo, il concetto stesso di legame umano. Deve riconoscere questa distorsione e ridefinire cosa significhi amare senza possedere, senza controllare o essere controllati, senza avere paura. Nulla si chiude completamente, nulla viene mai raccontato una volta per tutte. Maia lo scopre a sue spese, quando apre la porta che svela il suo passato. Ma sarà anche una liberazione, perché nessuna vita dovrebbe basarsi su una bugia per quanto dura possa essere la realtà che serve a nascondere».

Nei suoi romanzi, vedi il precedente I bambini di Svevia, lei affronta spesso il tema dell’infanzia costretta a confrontarsi con le difficoltà e anche i pericoli del mondo adulto. Come mai tanto interesse per il mondo dei più piccoli?

«Perché l’infanzia è un’età fatta di assoluti, nella quale attecchiscono credenze e traumi che influenzano l’età adulta in un modo di cui, forse, non siamo sempre del tutto consapevoli».

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