Dalle vette si sentono echeggiare tuoni. Non si tratta di temporali in arrivo ma dei colpi dei cannoni con cui italiani e austriaci si fronteggiano oramai da anni anche sulle montagne più impervie. Le trincee, infatti, corrono lungo le cime e qui i soldati vivono una guerra ancora più infernale di quella che si combatte in pianura. L'unico sollievo, almeno per i nostri soldati, è rappresentato dall'arrivo dei rifornimenti.

A portarli, caricandosi sulle spalle pesi che stroncherebbero un mulo, sono donne e ragazze dei paesi a valle. Umili contadine che riempiono le loro gerle fino a farle traboccare di viveri, medicinali, munizioni, e si avviano lungo gli antichi sentieri della fienagione. Sono queste donne, eroine della Grande Guerra a lungo dimenticate, le portatrici carniche, protagoniste del nuovo romanzo di Ilaria Tuti "Fiore di roccia" (Longanesi, 2020, pp. 320). Un romanzo intenso e teso in cui ritroviamo l'epopea di queste donne che rischiarono la vita per non lasciare soli quei soldati impegnati in una guerra assurda. E che su quei monti conobbero il coraggio, ma anche l'insensata violenza e la follia degli esseri umani.

A Ilaria Tuti chiediamo allora di spiegarci chi sono le portatrici carniche e cosa spinse queste donne a partecipare così attivamente alla guerra.

"Le portatrici carniche erano contadine di montagna che durante la Prima guerra mondiale aiutarono i soldati del Regio esercito italiano a resistere lungo le trincee della Zona Carnia in Friuli, a milleottocento metri di altitudine. Fin dalle prime settimane del conflitto, i battaglioni si ritrovarono isolati – non c’erano nemmeno mulattiere per portare fino alle prime linee quanto necessario –, senza ripari, decimati dal fuoco nemico. Il comando italiano si rivolse alla popolazione del fondovalle e lanciò un grido d’aiuto, ma nei villaggi erano rimasti solo donne, anziani e bambini. E le donne, fortunatamente, decisero di intervenire, creando una rete di soccorso fondamentale per la tenuta delle difese italiane. Furono mosse dal rispetto per la vita, dalla carità e dalla dignità che contraddistinguono chi più conosce il bisogno".

Perché il loro sacrificio fu tanto importante?

"Chi può dire se senza il loro aiuto l’Italia avrebbe vinto la guerra? Probabilmente gli storici, se la Storia prendesse in considerazione le portatrici e si aprisse finalmente un dibattito sul loro operato. Nei piani di Vienna, la Zona Carnia era la porta principale da sfondare per invadere l’Italia e le truppe del Kaiser si erano preparate da settimane lungo il confine, ben prima dell’entrata in guerra del nostro paese. Fin dal primo giorno di conflitto, l’esercito italiano si ritrovò a respingere attacchi devastanti. Ma quello dato dalle portatrici non fu un aiuto importante solo a livello strategico. La guerra è fatta di esperienze umane, di vissuti intensi e struggenti, di sacrifici che noi, oggi, non possiamo nemmeno immaginare: quelle donne portarono umanità nelle trincee, si fecero speranza attiva. Non attesero, si incamminarono e contribuirono alla difesa della vita".

Queste donne come vissero il fatto di dover condividere i pericoli e la sofferenza della prima linea con i soldati?

"All'inizio non fu facile farsi rispettare. Non tutti i soldati le accolsero con favore. Immaginiamo le reazioni di uomini provati dai pidocchi, dalla febbre da trincea, dal fuoco nemico, dalle continue perdite di vite umane, nel veder arrivare fin sulle prime linee queste donne semplici, vestite con lunghe donne, i fazzoletti in testa e la gerla sulle spalle. Che cosa avrebbero mai potuto fare, in quelle condizioni, delle donne? Portarono la vita, aiutarono degli sconosciuti a sopravvivere, a restare umani. L’impresa richiese sacrificio fisico, significò superare dubbi e paure, nutrirsi di coraggio e rischiare la vita. Le portatrici erano abituate alla fatica, forgiate dalla miseria, abituate da sempre a bastare a sè stesse e a reggere sulla propria schiena tutto il peso della famiglia. Con i loro silenzi, con una resistenza e una tenacia fuori del comune, guadagnarono il rispetto di ogni soldato con cui divisero pane e fronte. Un rispetto che riecheggia ancora oggi, nel ricordo che gli alpini hanno di loro".

A un certo punto del romanzo, Agata, la protagonista, si trova faccia a faccia con un nemico. Perché questo incontro è tanto importante?

"Quella delle portatrici è stata un'impresa epica, ma i poemi epici non contemplano mai la questione morale, l'etica. Per le portatrici non fu così. Tutte le testimonianze che ho raccolto concordano su un aspetto: queste donne non parlavano mai di ciò che videro al fronte. Troppo dolore, troppo tormento. Sapevano quali effetti avevano dall'altra parte delle linee nemiche le munizioni che portavano: li vedevano nei feriti che trasportavano a valle, nei caduti che seppellivano. Il punto di vista del nemico è fondamentale perché è il volto dell'altro, il guardare negli occhi un estraneo e riconoscervi sé stessi, cioè solo un essere umano".

A lungo le portatrici sono state dimenticate... Perché sono cadute nell'oblio e perché invece vanno ricordate?

"Come ha scritto Donato Carrisi nel suo romanzo La donna dei fiori di carta: 'Quante donne avrebbero meritato un posto nella Storia umana e sono sparite da essa perché un mondo di maschi ha deciso di non concedere loro pari dignità? Un vero genocidio, se ci pensate'. La Storia è sempre stata scritta dal punto di vista maschile, gli eroi sono sempre uomini. La storia delle portatrici invece parla di eroine, ed è una vicenda vera. Per rispetto, per gratitudine, per ciò che chiamiamo patria e casa, non deve essere dimenticata".
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