Nessuna pietà per i più deboli
Romina Casagrande e un romanzo che fa riaffiorare uno degli orrori dell’epoca nazistaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Sono passati tanti anni, eppure Emma ricorda ogni pietra di Villa Freiberg. È il luogo che ha dato rifugio a lei e al fratellino Benjamin quando, rimasti orfani, hanno seguito le ultime volontà del padre morto al fronte. Ma il risveglio da illusioni e sogni di salvezza è una porta che si chiude all’improvviso il giorno in cui Benjamin scompare per non tornare più. Emma, nonostante il tempo passato, ripensa continuamente a Benjamin, il bambino taciturno che amava la solitudine e disegnava con incredibile maestria. Benjamin, che è stato portato in una clinica insieme a molti altri come lui, considerati fragili e inadatti, per essere sottoposto agli esperimenti di scienziati nazisti disposti a sacrificare vite per inseguire un folle ideale di perfezione. Come tante e tanti come lui quel bambino è stato vittima della Aktion t4, una delle operazioni più controverse della storia. Un’operazione che, in silenzio, ha preparato il terreno all’orrore dei campi di sterminio. Da allora sono passati anni ed Emma non ha mai saputo cosa sia accaduto a Benjamin. Ma ora la villa è passata in eredità a una donna che, tra gli oggetti risparmiati dal tempo, ha trovato un vecchio anello e un plico di fotografie ingiallite. Forse sono indizi che conducono a Benjamin. Emma deve decidere se riaprire lo scrigno dei ricordi, anche se ciò vuol dire affrontare il dolore delle scelte e degli errori commessi. Perché forse non è troppo tardi per tenere fede alla promessa di prendersi cura e proteggere quel fratello troppo indifeso.
Dopo “I bambini di Svevia” (Garzanti, 2020), Romina Casagrande torna con “L’eredità di Villa Freiberg” (Garzanti, 2023, pp. 352, anche e-book) a raccontare una pagina oscura della storia del Novecento: le cliniche in cui venivano rinchiusi e torturati coloro che per qualsiasi ragione erano considerati “diversi”.
A Romina Casagrande chiediamo quali sono state le fonti di ispirazione del romanzo:
«Tutto nasce da un luogo reale - Villa Freischütz a Merano - e dal suo avventuroso recupero. I suoi proprietari, Franz Fromm, un ricco commerciante tedesco di vini con la passione per l'arte, e la sua composita famiglia divisa tra Francia, Germania, Italia e Sud America, l'hanno abitata in un periodo molto turbolento per l'Alto Adige, sopravvivendo, grazie ad amicizie e legami con le élite del tempo, all’italianizzazione operata dal Fascismo e agli anni, tra il 1943 e il 1945, in cui la regione divenne a tutti gli effetti una propaggine del Reich. La casa conserva carte importanti appartenute a un generale fascista oltre a oggetti provenienti da tutto il mondo. Ma quando per la prima volta si aprirono le sue stanze, nel 2013, tutto il suo passato era nascosto da macerie e immondizia, tanto da dubitare vi fosse ancora qualcosa da salvare. A distanza di anni la Villa, diventata un museo nel frattempo, continua a parlarci e a stupirci con storie che affondano le proprie radici in una regione di confine, una regione con una storia fatta di tante ombre e poche luci».
Cosa lega la villa reale all’operazione Aktion t4?
«Uno dei membri della famiglia Fromm era affetto da disturbi cognitivi e per questo ricercato dai nazisti. Il ritrovamento di un oggetto, depositario di una memoria quasi cancellata, fa da innesco al nucleo storico del romanzo: l’Aktion t4, un’operazione di eugenetica nazista che mirava all’eliminazione dei ‘diversi’ attraverso passaggi che anticipano e preparano le atrocità dei campi di concentramento. I pazienti venivano allontanati dalle famiglie con la promessa di cure e accudimento, ma di loro si perdevano completamento le tracce, tanto che ancora oggi è spesso difficile ricostruirne il destino. Venivano condotti in centri minori, e lasciati morire di fame e inedia, oppure diventavano oggetto di sperimentazioni e infine uccisi nelle camere a gas di luoghi della morte come Grafeneck o Hartheim, un castello nella campagna austriaca che cela i suoi orrori negli scantinati. La definizione di ‘diverso’ comprendeva situazioni molto differenti – bambini nati fuori dal matrimonio, persone affette da malattie ereditarie, ragazzi difficili e donne dal comportamento più libero, dipendenze quali l’alcolismo – vissute, spesso anche dai familiari, come una vergogna».
Nei suoi ultimi romanzi lei evoca costantemente il tema dell'infanzia sofferta, parla di bambini costretti a fare i conti con esperienze più grandi di loro. Come mai questa scelta?
«In questo romanzo amplio il campo con uno sguardo sulle donne, colpite più duramente nel loro essere cardine di una continuità che incute timore e, per questo, costrette alla sterilizzazione, una pratica annichilente e devastante con ripercussioni psicologiche e sociali irreversibili. Resta il mio interesse per il chiaroscuro, le età opposte. E il modo in cui la vita smussa gli angoli e mescola le carte».
Quanto è importante fare i conti con le proprie scelte passate e con le proprie non scelte?
«Forse occorre dare un significato al dolore, imparando a condividerlo. In questo caso è la sfida a domare un gigante senza forma, fatto di mattoni, legno e muschio, che ha ingurgitato vite, storie, scelte, ricoprendole sotto la polvere del tempo. Riportarle in vita, per i protagonisti, è una sfida e un’occasione per sentirsi meno sbagliati: la seconda possibilità che in fondo tutti cerchiamo».
Quanto è importante la memoria ed è possibile arrivare a costruire una memoria condivisa?
«Credo molto nella condivisione della Memoria quando fatta di racconto, piccoli ritratti che riconducono la Storia al suo essere più autentico e forse più umano perché, quando parliamo di microstoria, in fondo parliamo di relazioni, di affetti, di rapporti, qualcosa con cui viene più facile confrontarsi. Dare un volto, un nome ai protagonisti di queste storie ci rende più responsabili, a nostra volta testimoni».