Non c’è una performance da valutare, né un prima e un dopo con le foto a confronto. Mizar, però, ha lasciato qualcosa che si muove ancora: come una traiettoria, come una voce fuori campo che continua a dire: «si può fare diversamente».

Era il 2021 quando, in Sardegna, è iniziato questo esperimento: tredici adolescenti, tra i 12 e i 18 anni, alcuni ciechi, altri vedenti, hanno cominciato a camminare insieme senza gerarchie. Non per imparare qualcosa “sulla disabilità”, ma per mettere in crisi la divisione stessa tra chi “aiuta” e chi “è aiutato”. Un gruppo che si è preso per mano – letteralmente e simbolicamente – per esplorare il mondo insieme, ma con il desiderio condiviso di imparare l’uno dall’altro e costruire significati nuovi.

Il progetto, curato dall’associazione Punti di Vista Ets e sostenuto con i fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese, ha attraversato l’Isola e poi si è spinto oltre. Fino a Bologna. Fino a quella parte di noi che di solito non ascoltiamo.

«Ho imparato a guardare con altri sensi», ha detto Margherita. Ma non è solo una metafora. In MIZAR si è imparato a usare l’ecolocalizzazione – sì, proprio come i pipistrelli – per orientarsi tra gli alberi. Si è esplorato il museo Anteros con le mani. Si è registrata la voce delle emozioni, dei corpi, della terra. E la Radio Elfi non era un gioco: era una nuova forma di memoria.

La Boscoteca Itinerante ha portato storie tra i tronchi, mentre nei silenzi del Giardino Margherita di Bologna si sono costruite frasi nuove, fatte di tatto, di inciampi, di un linguaggio che non dà per scontato il vedere.

«Il progetto mi ha sicuramente educato a mettere in discussione il mio punto di vista, e a non vergognarmi se lo cambio», ha aggiunto Giovi. 

I ragazzi, “elfi e elfe”, come hanno scelto di chiamarsi, hanno disimparato i ruoli. Hanno provato a fare ciò che raramente si chiede agli adolescenti: costruire una comunità senza ricette. «Non siamo tornati uguali. Non siamo più spettatori del mondo, siamo diventati parte del paesaggio», ha evidenziato Martina Balloi, educatrice, «Questo progetto è un lavoro corale che coinvolge educatori, famiglie, professionisti del sociale e i ragazzi stessi, veri protagonisti del cambiamento. Tutti partecipano attivamente a un processo che ha come obiettivo il miglioramento della qualità della vita, inteso non solo come benessere individuale, ma come condizione collettiva».

Mizar ha così lasciato spazio al non detto, all’incompleto, all’ambiguità. Ha permesso che le famiglie si fidassero abbastanza da lasciare andare i figli senza cellulari, senza controllo. E ha restituito loro adolescenti che si riconoscono capaci di orientarsi, di ascoltare, di accogliere.

È un progetto che non si conclude, perché la sua forma è quella delle costellazioni: sparsa, ma connessa. E se il nome del progetto viene da una stella doppia, il senso lo troviamo qui: la doppiezza non è separazione, ma tensione, movimento, possibilità. Come ha detto uno dei partecipanti:  «Questo progetto è un viaggio verso l’infinito. Non si può concludere». 

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