Da quando Giorgia Meloni ha vinto le elezioni ed è diventata premier, prima donna nella storia italiana, per lo staff di Palazzo Chigi non c’è stato nessun rischio di fare confusione e sbagliarsi. Nelle note diffuse dalla presidenza del Consiglio dei ministri, il presidente è rimasto il presidente: così ha deciso il nuovo capo del governo.

Optare per il maschile, di fronte al più naturale femminile, è una scelta “marcata” che però “non mi stupisce affatto, anzi”, commenta Vera Gheno, sociolinguista (o social-linguista, come ama definirsi in quanto acuta osservatrice del mondo della rete) e autrice di diversi saggi tra cui “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole” (Effequ, 2019), “Le ragioni del dubbio. L'arte di usare le parole” (Einaudi, 2021) e “Chiamami così. Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo” (Il Margine, 2022).

Le donne cominciano a conquistare, un passo alla volta, posizioni sempre più di rilievo, ma la vita dei femminili professionali, anche se si limitano a fotografare la realtà, chissà perché resta travagliata. C’è chi – non solo uomini ma anche tante donne – fa della facile ironia, chi li definisce storture della lingua italiana, chi pensa che manchino di autorevolezza. Come se il femminile svilisse l’importante ruolo che si è faticosamente conquistato.

E poi c’è chi li ritiene semplicemente inutili, superflui rispetto a tante altre questioni più “importanti”. Ma non è così: "Ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone”, spiega Gheno: “Chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio ma il riconoscimento della loro esistenza”. 

Cominciamo dalla parola stessa: presidente. Quali sono le regole grammaticali sulla sua declinazione?

“Presidente è un termine ambigenere, un derivato di un participio presente. Per questo basta cambiarne l’articolo per cambiarne il genere. Senza inutili -essa”.


Secondo lei cosa c’è dietro la scelta maschile di Meloni? 

“Non posso parlare per Meloni e non so quale sia il motivo che l’ha portata a utilizzare il maschile. Sicuramente è una preferenza che devia dallo standard della grammatica italiana, che prevede l’uso del femminile per un referente femminile. Allo stesso tempo è una posizione tradizionale dei conservatori e della destra in Italia. Ci sono molti altri esempi, uno su tutti l’ex presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati”.


È giusto che ognuno scelga come definire o essere definito, inclusa Meloni?

"Mettiamola così, questo è un momento di interregno. Io posso dire che la forma grammaticalmente più corretta è quella femminile, il maschile è invece una forzatura. Detto questo, certo, Meloni è libera di definirsi come vuole e noi di utilizzare ‘la presidente’ in tutte le altre situazioni. Chiaro che essendo una figura di spicco, la sua scelta ha una rilevanza politica e ideologica. È un exemplum per le persone che la ascoltano”.

Perché quando si parla di lavori esistono tutte queste resistenze, a volte anche violente, alle declinazioni al femminile?

“Chiamarsi al femminile in ambito professionale, cosa che tengo a precisare sarebbe perfettamente naturale, può provocare risatine, alzate di sopracciglia, o necessitare di spiegazioni. Per questo molte donne, più o meno consciamente, cercano di usare il maschile. Per una forma di quieto vivere”.

Molte però difendono accanitamente la scelta, altro che quieto vivere…

“Perché rivendicano il fatto di ‘valere quanto un uomo’. Ma è davvero necessario confrontarsi sempre con gli uomini? Davvero il maschile merita di per sé più credito e considerazione? Oppure siamo noi parlanti a dare una connotazione ‘sminuente’ al femminile?”.

Da osservatrice attiva dei social ne ha viste di tutti i colori. Quali sono le “argomentazioni” contrarie alle declinazioni al femminile più diffuse?

"Mi capita di leggere che ‘i titoli sono neutri’, non è vero, ‘che ingegnera non esiste’, non è vero. Oppure che ‘grafica crea fraintendimento perché è anche altro’. Ma anche ‘grafico’ può voler dire altro. Assonanze e polisemie sono perfettamente normali nella lingua italiana. In sostanza scuse un po’ strumentali e campate in aria”.

Perché sindaca, avvocata e ministra no, ma maestra, cassiera e ostetrica sì?

“Semplice: c’è differenza tra il declinare i nomi di professioni più umili e invece nomi di professioni altolocate o di potere. Credo che la questione sia semplicemente l’abitudine… Siamo abituati a sentir parlare di ostetriche, cassiere e sarte perché ci sono da sempre. Ministra, assessora, sindaca, questora, avvocata sono ‘nuovi’ per le nostre orecchie e quindi ci sembrano brutti”.

Dunque è solo questione di tempo perché entrino a far parte del lessico comune?

"Spero di sì”. 

Quanto conta la lingua nelle questioni di genere?
"Direi fondamentale, attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero e il nostro modo di vedere la realtà. Le parole sono importanti e mai velleitarie”.

Tornando a Meloni, ritiene che la sua vittoria sia una conquista per tutte le donne?

"Meloni è una donna perfettamente aderente ai canoni del patriarcato quindi non ha nulla di femminista. In questo senso per me non è una vittoria, in alcun modo: non riesco a pensare che il dato biologico sia più rilevante del dato ideologico. Finché le donne per salire al potere dovranno travestirsi da uomini, nel nome ma anche nei fatti – pensiamo a come arringa, a come si veste etc –, non credo che una singola ascesa possa aiutare a sfondare il famoso soffitto di cristallo”.

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