Negli anni recenti, molti di noi europei hanno usufruito di un grande privilegio: quello di allontanare la guerra dai confini della nostra esistenza. Siamo, in effetti, tra le rare generazioni della storia mondiale a non aver vissuto conflitti sui nostri territori e abbiamo quasi potuto persuaderci che la guerra fosse un'eredità obsoleta, qualcosa da relegare nei libri oppure nelle sequenze di qualche film. Tuttavia, la guerra, questa entità mostruosa e devastante che accompagna l’umanità da tempi remoti, ha continuato a infierire in molte regioni della Terra per poi arrivare, in tempi recenti, alle porte di casa nostra. Nolenti e volenti abbiamo notato che lottare e morire in battaglia rimangono eventi di terribile attualità, anche se per ora – ma siamo certi per sempre? – questi eventi avvengono oltre i confini della nostra sicurezza.

Migliaia di anni fa, nella Bibbia è stato scritto: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra». Millenni dopo la parola è ancora alle armi e forse è venuto il momento di riflettere su questo fenomeno che accompagna noi esseri umani da sempre liberandoci da alcuni preconcetti che ci aiutano probabilmente a sentirci migliori, ma non servono a prepararci al disordine mondiale che stiamo vivendo.

È questa la proposta di Gianluca Sadun Bordoni, professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Teramo, contenuta nel saggio Guerra e natura umana (Il Mulino, 2025, pp. 300, anche e-book). Bordoni parte da due semplici constatazioni. La prima è quasi banale: i venti di guerra tornati a minacciare l’Europa riaccendendo lo scontro anche tra le grandi potenze hanno messo di nuovo in discussione l’idea che l’umanità fosse ormai capace di superare per sempre l’orrore dei grandi conflitti, e che la violenza fosse in irreversibile declino. Nel frattempo, la rivoluzione in atto nelle scienze biologiche e antropologiche sembra modificare radicalmente la conoscenza delle origini e dell’evoluzione della nostra specie, riconoscendo sempre più nella guerra un comportamento con profonde radici nella nostra storia naturale. Una prova ne sono i tantissimi ritrovamenti che testimoniano come la guerra sia stata “inventata” dai nostri progenitori in epoche lontanissime, nella più arcaica preistoria, in un’epoca, cioè antecedente allo sviluppo di civiltà organizzate e gerarchiche così come le intendiamo oggi.

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Vista in questa luce, la guerra smette di essere una funesta invenzione culturale, priva di fondamenti evolutivi, né esistono tendenze storiche oggettive che muovano verso un suo superamento nella storia civile dell’umanità. Insomma, non basta il progresso umano a liberarci dalla piaga della guerra, come dimostra tutta la storia del Novecento e quello che sta accadendo negli ultimi anni. Questo non significa che la guerra sia innata nella nostra specie oppure che l’essere umano sia intrinsecamente malvagio o amorale. L'essere umano intraprende la guerra con la convinzione di poter trarne vantaggio.

Non siamo né 'buoni selvaggi', come sosteneva Jean-Jacques Rousseau nel Settecento, né 'scimmie assassine', secondo la teoria di Robert Ardrey esposta in "African Genesis" nel 1961, il quale attribuiva alla nostra natura una predisposizione genetica alla violenza. La verità è che siamo opportunisti, sia come individui sia come comunità; a volte con motivazioni valide, più frequentemente in errore. In termini semplici: quando una comunità percepisce di avere un vantaggio rispetto ai propri vicini, è portata a perseguire le proprie ambizioni e a imporre le proprie decisioni. Se non riesce a farlo attraverso mezzi pacifici, può decidere di adottare la forza militare. In questo caso, l’avversario è costretto a difendersi, a sua volta, ricorrendo a risorse armate. La guerra offensiva è dunque un atto opportunistico, mentre quella difensiva è una necessità: ogni società organizzata non può rifiutare di fronteggiare un attacco esterno.

Questa consapevolezza impone un radicale cambio di paradigma, antropologico-politico, che richiede un’esplorazione priva di preconcetti, in grado di affrontare con consapevolezza adeguata le sfide politiche e intellettuali che abbiamo di fronte. Espellere la guerra dal nostro modo di pensare, come accade in Occidente, ci può, infatti, portare a finire nei guai. Rimuovere un problema non equivale a risolverlo; significa solo farsi trovare impreparati quando diventerà talmente grave e incombente da non poter essere relegato ai margini del nostro pensiero e delle nostre azioni. È necessario, oggi più che mai, pensare la guerra per limitarla, per impedirle di trasformarsi in un incubo capace di distruggere la nostra società e il nostro modo di vivere.

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