L'anima di un uomo e del suo popolo: "Padre Padrone" quarant'anni dopo
Cosa resta di "Padre Padrone", il film dei fratelli Taviani che quarant'anni fa, clamorosamente, si aggiudicò la Palma d'Oro al Festival di Cannes, per volere del presidente della giuria Roberto Rossellini, nonostante i dubbi della critica ("possiamo davvero portare le pecore sul tappeto rosso?").
"Molto, o forse nulla. Quel film non raccontava la Sardegna, ma una vicenda personale", spiega oggi l'autore del libro da cui quella pellicola prese la trama, Gavino Ledda. "Inoltre", continua lo scrittore di Siligo, che l'anno prossimo compirà ottant'anni, "nel lungometraggio manca qualcosa che nel libro era presente: la cultura del nuraghe, quella del pastore del Mediterraneo. Non ne faccio una colpa ai fratelli Taviani, evidentemente, a cui ho voluto e voglio molto bene: ma nel mio romanzo raccontai l'intimità di un uomo, portando alla luce lo spirito dell'animalità sarda: tutto questo nel film è rimasto irrimediabilmente fuori. Il fatto è che 'Padre Padrone' è la storia dell'anima di un uomo e di un popolo, che parte dall'intimo: l'unico referente di quella storia sono io. Nel 'Gattopardo', per fare un paragone con un altro romanzo di stampo storico e realistico, c'è l'affresco di un'epoca e di un mondo intero che frana, e che sta all'esterno. Qui invece tutto è interiore, ed emerge passando da Baddefrustana, dalla campagna, sotto il cielo e dentro il vento".
Oggi Gavino insegue un'utopia. No, non pensa più, come qualche anno fa, di riscrivere "Padre Padrone" in sardo. "Ho inseguito a lungo questo sogno. Lo scriverò un giorno, ma solo per me, in un sardo poetico e inventato, perché bisogna dire che il sardo parlato non esiste. Oggi provo a raggiungere un'altra utopia: dare all'uomo - non al sardo, non all'italiano, ma all'intera specie umana - una parola nuova: non una lingua ma esclusivamente una parola. Pluripatente, pluridimensionale. L'umanità non ha bisogno di recuperare i suoi dialetti: ha bisogno di ritrovare la propria anima".
Dalle capanne e dal nuraghe al cielo stellato: Gavino Ledda ha allargato l'orizzonte. "Grazie alla scienza l'umanità ha raggiunto gradi di consapevolezza nuovi: ora ha bisogno di una nuova parola. Io l'ho trovata, in questi decenni ho inseguito solo quest'ultimo sogno. E presto lo porterò alla luce".
Nell'attesa, resta quella pellicola tragica, che racconta la storia di un bambino strappato alla scuola da un dispotico capofamiglia, usato a mo' di strumento per accudire il gregge in campagna, lasciato analfabeta sino all'età di vent'anni. Un film spinoso che ottenne un inaspettato successo nelle sale perché affrontava un tema diventato universale: la ribellione contro il potere patriarcale, la lotta per la conquista della libertà. A evidenziarlo fu il fatto che, nella parte finale della pellicola, durante la drammatica scena della colluttazione tra padre e figlio nei cinema di tutto il mondo partiva un lunghissimo applauso.
L'opera, che colpì il mondo, Martin Scorsese rivelò di averlo visto due volte consecutive, squarciò il velo di Maya su una dimensione ancestrale e a lungo incubata dalla cultura pastorale. Parlava alle viscere e fu uno schiaffo: un doloroso manrovescio di cui ancora, a fatica, proviamo a levarci dal volto il rossore.
Guido Garau