I biologi marini li hanno messi sotto la lente del microscopio e la loro ipotesi è stata più che confermata: scampi e gamberi viola sono divoratori di plastica. Non certo per naturale abitudine alimentare. La colpa è tutta nostra. Siamo stati noi, esseri umani, a modificare la loro dieta, scaraventando nell'ambiente e in mare tonnellate di plastica. Mica qualche bottiglia, qualche contenitore sfuggito per caso a uomini distratti.

Ogni anno - lo dicono le statistiche - finiscono negli oceani tra i 5 e i 13 milioni di tonnellate di plastica. Per essere più precisi e per meglio comprendere la portata di questo fenomeno drammatico, le parole di Alessandro Cau, il ricercatore del Dipartimento di scienze della vita e dell'ambiente dell'Università di Cagliari che insieme ai colleghi Antonio Pusceddu, Claudia Dessì, Davide Moccia, Rita Cannas e Maria Cristina Follesa e ha firmato lo studio sulla presenza delle microplastiche negli stomaci di queste due specie di crostacei. «Si stima che negli ultimi settant'anni ne siano stati prodotti oltre otto miliardi di tonnellate in tutto il mondo - spiega il biologo del Disva - di questi l'80 per cento è disperso nell'ambiente e la maggior parte arriva in mare».

Scampi e gamberi viola non sono organismi sconosciuti che incuriosiscono esclusivamente (o quasi) gli scienziati più puntigliosi. Macché, sono crostacei ad elevato interesse commerciale, di così grande valore da essere classificati come specie "gourmet", immancabili nei menu dei più quotati chef internazionali, oltre che nei piatti di milioni di appassionati di alimenti provenienti dal mare.

Ebbene, con le loro carni, nei piatti ci finiscono anche i frammenti di plastica. Per questo è importante eliminare, prima di consumarli, il loro apparato gastrointestinale, un lungo filamento scuro facilmente asportabile.

Divoratori di microplastiche, questi crostacei, che grazie a una particolare struttura presente nel loro tratto digerente, nota con il nome "mulino gastrico" e che assolve alla stessa funzione dei denti nei mammiferi, sono in grado di triturare e sminuzzare le microplastiche. I frammenti sempre più piccoli vengono quindi eliminati in ambiente e divengono a loro volta potenziali contaminanti per animali marini più piccoli. A spiegarlo è il pool di scienziati dell'Ateneo cagliaritano che ha realizzato lo studio con i colleghi dell'università Politecnica delle Marche. La ricerca, ora pubblicata dalla rivista Environmental Science and Technology, periodico della American chemical Society e sullo Smithsonian magazine - ha messo in luce il "percorso" inquinante della plastica, veicolato da animali come gli scampi e i gamberi in grado di triturare la plastica accumulata nell'ambiente marino. Un viaggio che altro non è che la lunga catena alimentare al cui vertice c'è evidentemente l'uomo, proprio la specie responsabile del depauperamento dell'ambiente emerso e sommerso.

Dal Disva, un lavoro che apre scenari attuali e dibattuti. Centri e laboratori di ricerca, college e accademie, aziende e multinazionali del settore sono all'opera per intuire e rispondere all'emergenza. Con quali format, tempi e metodiche sono i quesiti chiave. Nel mirino degli studiosi inquinamento ambientale e marino, microplastiche, ruolo di alcune specie di crostacei, risposte e soluzioni a una catena di problematiche da non trascurare.

Erano gli anni Sessanta quando sull'allora unico canale Rai spopolavano gli spot televisivi sul miracolo-plastica, sull'uso sempre più diffuso (anche in ambiente domestico) di questo materiale iper resistente e in grado di sostituire gli altri utilizzati fino ad allora. Una produzione enorme di oggetti e manufatti diventati inevitabilmente anche rifiuti. Tonnellate di plastiche che dalla terraferma sono poi finiti in mare e diventando, ben presto, un pericolo per molte animali acquatici come le tartarughe marine, i cetacei, gli stessi pesci. E i crostacei, capaci di triturarle ancora di più nei loro apparati.

«Altri organismi - spiega Alessandro Cau - hanno analoghe caratteristiche anatomiche degli scampi. Potenzialmente, questa specie potrebbe essere solo la prima di una lunga lista che ha un ruolo attivo nel triturare la plastica già accumulata nell'ambiente». Il quadro si amplia. «Le microplastiche sono primarie se vengono specificatamente prodotte di piccole dimensioni da 5mm a un micron. Sono secondarie se derivano dalla frammentazione di plastiche più grandi. I nostri risultati hanno documentato come la natura accumuli un nuovo tipo di microplastiche secondarie: quelle che sono state processate biologicamente attraverso la triturazione e digestione», spiega Cau.

La scoperta fatta dal pool cagliaritano pone un quesito: quanta può essere la porzione di plastica accumulata nell'ambiente che ha subito una manipolazione biologica nel corso dei decenni? Per il team del Disva potrebbe essere una frazione molto importante, sino ad oggi non considerata.

Di certo i risultati dello studio rappresentano l'ennesimo monito della ricerca scientifica a perseguire le strategie di sviluppo sostenibile indicate dall'Onu, e nel caso specifico la tutela della vita marina.
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