«Alto, mite, con le spalle rilassate e lo sguardo perennemente divertito, per me era come un fratello maggiore. Era una sorta di immenso campo gravitazionale – per tutti noi, a dire il vero. Il centro immobile attorno a cui ruotavamo da sempre, anche se in orbite via via più grandi…»: così Martino Gozzi, nel suo romanzo “Il libro della pioggia” (Bompiani, 2023, pp. 204, anche e-book) ci introduce Simone.

Simone che suonava il basso mancino come Paul McCartney, che aveva una band, scriveva musica. Simone che era così bravo da essere destinato per forza al successo, nella vita e con le persone. Simone che se ne è andato troppo presto. Fra passato e presente, fra memoria e riflessione interiore, il narratore-autore ci racconta poi il congedo lento ed eroico di un giovane uomo speciale e la traccia che ha lasciato nella vita degli amici. Perché Simone, in vita e anche dopo la morte, rimane la pietra di paragone, il punto di riferimento, l’irrinunciabile metro rispetto a cui misurare le tappe di una vita: i trasferimenti, Ferrara, Torino, la scrittura, il matrimonio, la paternità, la musica, i cambiamenti. Simone c’era, c’è e ci sarà come può accadere solo alle persone che hanno dono di saper amare e farsi amare.

Romanzo-memoir in continuo andirivieni dalla luce della giovinezza alle ombre dell’età adulta, “Il libro della pioggia” è allo stesso tempo avventura letteraria e personale come ci racconta l’autore, Martino Gozzi:

«Ho iniziato a scrivere “Il libro della pioggia” sette o otto mesi dopo la morte di un amico fraterno, Simone. In quei primi mesi ero troppo confuso, troppo disorientato, per immaginare nuovi progetti, ma già cercavo attorno a me qualcuno con cui parlare di Simone, qualcuno con cui scambiare aneddoti e ricordi. In quel periodo mi sono reso conto di quanto sia difficile esprimere il dolore e condividerlo con gli altri: io, per esempio, avevo paura di essere sopraffatto dalle emozioni, e poi percepivo una sorta di divieto sociale attorno al lutto, un tabù. Non se ne parla perché la cosa più importante è essere forti e andare avanti, voltare pagina. Ecco, per questo mi sono messo a scrivere: sentivo il bisogno di trovare uno spazio per quel dolore, per quello smarrimento, seppur nel flusso della vita che inevitabilmente continuava a scorrere».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Come è stato scrivere un libro tanto personale? Non l’è mai presa la voglia di mollare tutto?

«No, non ho mai pensato di mollare tutto, anche se è vero che mi ci è voluto un po’ di tempo per trovare la mia voce, il mio passo. Non avevo mai scritto un mémoir e non mi ero mai messo a nudo, per così dire: prima di trovare la mia modalità ho dovuto procedere per tentativi. Scrivevo quasi sempre di sera, dopo aver messo a letto mia figlia, quando la giornata lavorativa si era conclusa e le mail si interrompevano. A poco a poco, quello è diventato il momento più bello della giornata, lo spazio in cui ero libero di sentirmi me stesso. Calandomi nel libro, sera dopo sera, avevo la sensazione di viaggiare nel tempo, di ritrovare ogni volta Simone e il nostro gruppo di amici attraverso le stagioni che abbiamo vissuto assieme, come tutti: l’infanzia, l’adolescenza, gli studi, il lavoro, l’età adulta. Mi è anche capitato di piangere alla scrivania, e mi sono detto: che cosa c’è di male?».

Il testo finale è stato il risultato di molto lavoro di revisione oppure è un testo scaturito, per così dire, spontaneamente?

«Ognuno ha il suo metodo. Io procedo molto lentamente e rileggo molto spesso le pagine che ho scritto a voce alta. A differenza di altri che avanzano spediti e poi fanno un gran numero di revisioni, per me ogni capitolo si costruisce invece con molta gradualità, attraverso infiniti micro-aggiustamenti. Non ho mai avuto la fortuna di scrivere di getto, devo dire: per questo, di solito, durante la lunga gestazione di un libro, tengo tre o quattro quaderni di appunti su cui annoto tutto ciò che potrebbe tornarmi utile. Nomi, idee, particolari, citazioni, ricordi, espressioni che mi sono rimaste impresse».

Cosa le ha regalato e cosa invece le ha tolto questo libro, se le ha regalato o tolto qualcosa?

«Qui devo fare una confessione. Si tratta di una cosa che non ho mai confessato neppure a me stesso, ma a qualche livello inconscio, mentre scrivevo, ero convinto che l’impresa in cui mi ero imbarcato prima o poi mi avrebbe permesso – non so esattamente come, grazie alla magia delle storie, immagino – di entrare in contatto con Simone. Di superare cioè ‘lo spazio e la luce,’ come cantava Battiato, per incontrarlo di nuovo. Quando poi ho finito il libro mi sono reso conto che questo era già successo, in realtà. Era successo mentre scrivevo, durante tutte quelle sere. Ed è questo che mi auguro accada a chi apre il libro per leggerlo: che almeno per un istante possa trovarsi di fronte Simone, in tutta la sua vitalità e il suo tracimante entusiasmo».

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