Winston Churchill era persona a cui non mancava certo l’ironia e anche il sarcasmo. Non per nulla nel commentare la condizione di un Paese, il nostro, che nel 1940 è entrato in guerra inneggiando all'aggressività fascista e tre anni dopo se ne è prontamente dimenticato amava ripetere: “In Italia sino al 25 luglio c'erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l'Italia abbia 90 milioni di abitanti”.

Una istantanea spietata di una nazione che non voleva fare i conti con le proprie responsabilità passate e che non aveva nessuna intenzione di cambiare atteggiamento neppure a guerra finita. Nella Conferenza di Pace di Parigi del 1946, tutte le responsabilità della disfatta vennero infatti attribuite esclusivamente a Mussolini, ai gerarchi e a Vittorio Emanuele III. Una volta eliminati i primi a Dongo e in piazzale Loreto ed esautorata la monarchia con il referendum del 2 giugno, l'Italia poteva quindi riacquistare la sua presunta integrità politica e morale usando la Resistenza, opera di una minoranza, come alibi per assolversi dalle responsabilità del Ventennio.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Una dinamica dalle drammatiche conseguenze come ci racconta lo storico Gianni Oliva, autore di un saggio dedicato proprio alle italiche amnesie e intitolato non a caso “45 milioni di antifascisti” (Mondadori, 2024, pp. 228, anche e-book):

«Non fare i conti con il passato significa che il passato non passa: lo dimostrano le polemiche ricorrenti sull’antifascismo, sulle piazze del 25 aprile, sulle foibe, sulla giornata del ricordo, sul confine nordorientale, sul saluto romano. Dopo quasi 80 anni dalla Costituzione, è paradossale che ‘antifascismo’ sia ancora termine di contrapposizione: significa che non abbiamo interiorizzato la Costituzione che è ‘democratica’ e, dunque, comprende di per sé l’antifascismo, mentre non sempre l’antifascismo è democratico. Oggi la politica è debole nell’interpretare il presente e nel progettare il futuro, per questo finisce per parlare alla ‘pancia’ del proprio elettorato cercando nel giudizio sul passato i propri retroterra identitari. E così argomenti che dovrebbero far parte delle consapevolezze collettive diventano motivo di polemiche fuori tempo».

Ma perché, a differenza di quanto accaduto in altre nazioni come la Germania, si è preferito il semplice colpo di spugna sul passato, sul Ventennio, sulle nostre responsabilità nella Seconda guerra mondiale?

«Perché nel dopoguerra abbiamo voluto transitare tutta la classe dirigente dal fascismo alla repubblica senza colpo ferire: serviva normalizzazione, stabilità, i conti con il passato avrebbero posto domande imbarazzanti per molti e aperto scenari imprevedibili. E così magistrati, intellettuali, giornalisti, burocrati, generali, prefetti, questori, professori tutti hanno mantenuto il loro posto: abbiamo usato l’unica esperienza che ci metteva dalla parte giusta della storia, la Resistenza, e (come scriveva lo storico Rosario Romeo) ‘l’abbiamo usata come alibi’ per ritenerci tutti assolti da complicità passate. Con il paradosso di ritrovarci, ad esempio, con un magistrato come Gaetano Azzariti, nel 1938 presidente del Tribunale della razza, che nel 1957 diventa presidente della Corte Costituzionale, passando dalle leggi razziali alla democrazia senza che nessuno gliene chieda conto né i democristiani, né i comunisti, né la comunità ebraica; o con un uomo come Marcello Guida, che nel 1939 è direttore del carcere di Ventotene dove sono detenuti gli antifascisti e nel 1969 è questore di Milano».

Ma si poteva fare diversamente? In particolare, alcuni ritengono che la cosiddetta amnistia Togliatti del 1946, che portò alla cancellazione dei crimini commessi nel Ventennio e durante la guerra, sia stata più un male che un bene per la nazione.

«Probabilmente l’amnistia Togliatti era inevitabile: non si poteva pensare ad una stagione di processi protratta per anni. Però si poteva e si doveva elaborare diversamente il passato, comprendere la natura del fascismo, riconoscere le tante complicità di cui il Ventennio ha goduto: invece si è preferito immaginare che il regime fosse una camicia di forza che teneva il Paese cucito insieme con il filo di ferro della repressione e pensare che il 25 aprile garantisse a tutti una verginità politica e morale».

Cosa ci è mancato per non cadere nell’autoassoluzione collettiva?

«È mancata una Norimberga italiana, non tanto per le condanne cui Norimberga ha portato (i maggiori responsabili del fascismo sono stati comunque giustiziati a Dongo), ma per il significato di riflessione rappresentato dal processo, per le consapevolezze critiche che ha sviluppato in Germania».

Oggi cosa possiamo fare per non perpetuare le rimozioni di quasi un secolo fa?

«Gli storici cercano di capire ciò che è accaduto ieri, non sono i più adatti per indicare ciò che va fatto oggi. Una cosa, però, mi sembra si possa dire: bisognerebbe studiare di più la storia. La storia nella nostra scuola non è materia molto in onore, soprattutto non è in onore la storia contemporanea. Ecco, se studiassimo di più e meglio il Novecento, forse potremmo contribuire a superare le rimozioni del dopoguerra. E a comprendere meglio la realtà in cui ci muoviamo».

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