Nell’estate del 1992 per le strade di Palermo rimbombano ancora le eco delle bombe di Capaci e di via D’Amelio. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati spazzati via nel giro di pochi mesi. Per molti, non solo tra i palermitani, la mafia ha vinto e il male ha trionfato. Per rispondere a questo attacco durissimo lo Stato sta, però, silenziosamente mettendo in campo un corpo speciale, nato da un progetto dello stesso Giovanni Falcone: la DIA, Direzione Investigativa Antimafia. Riunisce gli elementi migliori di tutte le forze dell’ordine: sono uomini che per mettersi a caccia di chi ha ucciso Falcone e Borsellino lasciano le famiglie, vivono sotto copertura in alberghi di quart’ordine, hanno a disposizione strumenti rudimentali ma sono animati dal sentimento altissimo di una missione che li unisce come fratelli.

Diana Lagorio dà voce a uno di loro nel romanzo “Occhi di lupo, cuore di cane” (Bompiani, 2023, euro 18, pp. 320. Anche Ebook), narrando le indagini, le ore di ascolto delle voci intercettate, l’adrenalina dei blitz, le ossessioni e le emozioni di quei giorni cruciali. Il protagonista le racconta a suo figlio, che a quel tempo era un bambino pieno di nostalgia per il padre sempre lontano. Allora, a quel bimbo aveva detto di essere un animale speciale, dotato degli occhi feroci di un lupo ma del cuore fedele di un cane. Oggi gli spiega la cruda verità: diventare invisibile era l’unico modo per proteggere lui e sua madre mentre compiva il proprio dovere.

Opera attraversata da uno struggente sentimento di speranza e da un senso dell’etica non comune nella narrativa contemporanea, “Occhi di lupo, cuore di cane” è stato per Diana Lagorio un romanzo che doveva essere scritto: «Ascoltando le storie degli investigatori della DIA ho sentito un’urgenza che all’inizio non riuscivo a decifrare. Conoscendo in profondità la loro lotta per lo Stato e contro la mafia ho capito che la mia era urgenza di fare qualcosa. E nel mio caso poteva dire solo raccontare questa storia. Perché raccontare vuol dire illuminare una storia e consentire alla memoria di essere trasmessa. Per questo nel romanzo ho avuto chiarissimo fin da subito che era necessario dialogare con un figlio, rivolgersi a lui come in un’idea di futuro, una forma di eredità».

Che persone sono quelle che entrano a far parte della DIA nel 1992?

«Erano giovani investigatori quelli che nel 1992 entrarono a far parte di un corpo speciale, la DIA appunto, nata da un progetto dello stesso Giovanni Falcone e che riuniva i migliori uomini di tutte le forze dell’ordine. Dopo la strage di Capaci per mettersi a caccia di chi ha ucciso Falcone questi agenti lasciano le loro famiglie e arrivano a Palermo, vivono sotto copertura in alberghi dismessi e iniziano a fare la stessa vita dei latitanti che devono catturare. Vivono nell’ombra, mettono in campo abnegazione, sacrificio, intuito, desiderio di vincere quella che in quegli anni sentono come una vera e propria guerra. Il sentimento altissimo da cui sono attraversati è quello di una missione di giustizia che li unirà come fratelli». 

Quale messaggio ci lascia la loro dedizione alla giustizia e allo Stato?

«Non parlerei di messaggio quanto di una postura, un atteggiamento nuovo che conosciamo avvicinandoci a questa storia: un modo di vivere il proprio lavoro che diventa un modo di essere e che richiede intanto che l’io venga sostituito dal noi. L’individualismo lascia il posto al gruppo. Un noi che si fa appunto Stato. In un mondo in cui spesso si agisce per visibilità e riconoscimenti l’atteggiamento portato avanti da questi uomini va nella direzione opposta: scelgono e comprendono l’importanza dell’ombra, del silenzio, di sacrificare la loro vita privata non per la gloria o le medaglie, ma per consegnare a tutti un mondo più giusto».

Ha ancora senso oggi la lotta alla mafia?

«Lascerei questa risposta agli esperti del settore. Posso solo dire che quando la mafia non spara come trent’anni fa e non produce più allarme sociale, non significa che non abbia trovato nuove e insidiose forme per operare. Mi interrogherei oggi su una lotta alla mafia che senza retorica ritrovi la sua urgenza di giustizia».

Quali emozioni le hanno fatto compagnia mentre scriveva il libro?

«Mentre scrivevo, la paura di non riuscire a restituire il senso delle storie che mi erano state raccontate; una passione incredibile quando il montaggio delle scene scorreva sotto le mie dita; la necessità di non commettere errori e di far sì che i protagonisti di questa storia si riconoscessero nella missione che ho cercato di narrare e drammatizzare; il desiderio di far immergere il lettore nei conflitti epocali e familiari di questa storia; il bisogno di dialogare con un figlio; un dolore sottile che ha scavato dentro di me per questioni personali ma che mi ha portato ad affondare la penna in un rapporto dilaniante dentro la famiglia di questo romanzo; l’affetto sincero verso gli investigatori che ho conosciuto; la gratitudine per mio padre che mi ha trasmesso il senso del giusto; l’amore per il padre di mio figlio e per mio figlio; la pretesa di riscattare questi uomini dal silenzio che ha avvolto la loro vicenda per tutto questo tempo».

Quali sono state le sensazioni quando ha messo la parola fine al suo lavoro?

«Quando ho finito, ho provato gratitudine verso chi mi ha raccontato questa storia e poi una nostalgia pungente. Mi mancavano gli investigatori con cui ho dialogato, mi mancava scrivere questa storia. Poi mi è arrivato l’affetto inaspettato di lettori e librai sconosciuti: persone che mi hanno cercata, ringraziata e anche un po’ maledetta perché non riuscivano a staccarsi dal libro e dalle emozioni che la lettura ha risvegliato in loro. Insomma, tutte queste emozioni e anche di più».

La copertina
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