Viviamo in una società che elogia la forza, la competitività, la performance. Allo stesso tempo siamo oramai abituati a blandire le nostre debolezze, terrorizzati dall’idea di guardarle in faccia e affrontarle per quello che sono: parte integrante della nostra vita.

In “Essere fragili” (Il Saggiatore, 2024, pp. 128, anche e-book) - un saggio che prende spunto dalle opere di Virginia Woolf, Hannah Arendt, Rainer Maria Rilke, Emmanuel Lévinas e da Moby Dick di Melville - il filosofo catalano Joan-Carles Mèlich prova allora a rispondere a un quesito fondamentale: come possiamo farci carico della nostra fragilità senza che questa ci inibisca il piacere dell’esistenza o, peggio, ci distrugga?

Punto d’avvio un bivio, sliding doors in cui tutti ci ritroviamo nel momento in cui accettiamo che il nostro corpo è minato di ferite, cicatrici e dolore e consideriamo la condizione umana come precaria e transitoria. Possiamo avanzare rifugiandoci in un’idea di mondo in cui tutto è ordinato, privo di problemi, e appellarci a questo principio per dare un senso alla nostra vita, orientarla e dirigerla. In questo modo però ci neghiamo una possibilità enorme, quella che ci può essere offerta dalla potenza della imperfezione e, in definitiva, non assaporare del tutto l’esistenza. Oppure possiamo affrontare con una critica radicale questo tipo di pensiero, per ritrovarci come corpi sì fragili, ma uniti.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Per Joan-Carles Mèlich la strada da seguire è quella di un’etica comunitaria, non improntata su un insieme di regole da seguire, ma intesa come il perseguimento dell’empatia, del perdono, della compassione, dunque della cura di sé e dell’altro. Mèlich evoca quindi parole antiche, piene di significato, importanti e allo stesso tempo trascurate, quasi dimenticate. Una di queste è perdono, un termine troppo spesso considerato sinonimo di debolezza oppure semplicemente un sentimento insensato, illogico, quasi estraneo all’uomo che non può perdonare, ma forse solo dimenticare o, peggio, cercare vendetta. Viceversa, il perdono è qualcosa che l’essere umano può agire, oltre che concepire. È dono, abbandono, azione, strada da percorrere se si vuole vivere pienamente.

Come ha scritto il poeta e scrittore Gian Luca Favetto: «Il perdono serve anche a restituirsi tempo. Non c’entra tanto con il comprendere, con l’assolvere, con il sopportare e non è spiegabile, se non nel senso di spiegarlo come si spiega una vela o una tovaglia. Tuttavia, è certo che, se non si perdona, si rimane piantati come croci in un cimitero. Se non si viene perdonati, si rimane nel limbo, anche se in quel limbo chiunque può organizzare un carnevale per illudersi. Se non perdoni te stesso, infine, se non ti accetti, quindi, non puoi perdonare gli altri. Per donare qualcosa un po’ perdoni e un po’ perdi».

Il perdono vuole azione e anche relazione e dobbiamo tutti sforzarci di riscoprire che siamo relazione e in relazione. Se spezziamo le relazioni alla fine non esistiamo neppure come individui.

Il grande poeta tedesco Goethe affermava: «Tratta le persone come se fossero ciò che vorrebbero essere e le aiuterai a diventare ciò che possono essere».

Le persone cambiano quando noi cambiamo il nostro approccio nei loro confronti. E anche noi cambiamo se sappiamo aprirci alla relazione, una relazione non soltanto verbale, ma legata al linguaggio del corpo. Per Joan-Carles Mèlich la risposta definitiva sta nel contatto – ossia nella “carezza” – tra corpi diversi; perché riconoscendoci vulnerabili insieme sapremo darci conforto gli uni con gli altri, fronteggiando paura e sofferenza grazie alla loro condivisione. Così non saremmo anima e corpo, costantemente in dissidio e divisi, ma carne, unione di spirito e materia, in costante comunione con il resto dell’umanità.

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