Non si può conoscere fino in fondo la Shoah. Non la si può comprendere fino in fondo. L'unica operazione veramente possibile è porci in ascolto, principalmente delle voci dei testimoni. Ascoltarli e provare a interrogarli.

È quello che ha fatto la giornalista Daniela Padoan raccogliendo le parole di tre donne, Liliana Segre (di recente nominata senatrice a vita), Goti Bauer, Giuliana Tedeschi. Tre sopravvissute al campo femminile di Auschwitz-Birkenau.

Dalle loro voci è nato "Come una rana d’inverno" (Bompiani, 2018, Euro 10,00, pp. 256) e all'autrice chiediamo perché ha voluto raccogliere queste tre testimonianze:

"Ogni testimonianza della Shoah è necessaria – anche la più piccola, la meno strutturata letterariamente – perché contiene un frammento di realtà che altrimenti non verrebbe illuminato. I sopravvissuti testimoniano di come si sia arrivati alla messa in atto dello sterminio, passo dopo passo. La loro storia inizia con la segregazione, le leggi razziali, e la loro memoria è portatrice di milioni di immagini che riguardano tutte le vittime e che costituiscono la nostra comunità di scomparsi".

Perché parla della comunità di scomparsi come "nostra"?

"Questa comunità ci riguarda tutti, ebrei e non ebrei, e sta alla base della nostra possibilità di vita democratica. La Shoah è stata pienamente opera dell'uomo: è stata costruzione politica, burocratica, economica e industriale. Attrezzarci a vederla è il solo modo per far crescere in noi quell'attitudine resistenziale che impedisce alla memoria di diventare obbligo retorico, facendone invece uno strumento di libertà e di umanità".

La voce dei testimoni ha trovato ascolto?

"In assenza di una chiara e piena assunzione di responsabilità storica – a differenza di quanto avvenuto in Germania – i testimoni sono stati sottoposti a una sorta di liturgia, ma solo nei giorni deputati. In alcuni casi sono stati ossequiati, insigniti di importanti riconoscimenti, ma non hanno trovato una collocazione nella vita pubblica. La nomina di Liliana Segre a senatrice della Repubblica è un tributo dovuto, anche se tardivo: un risarcimento alla memoria che Liliana Segre rappresenta. Un risarcimento a tutti noi cittadini italiani che attendevamo, senza ormai più nemmeno crederci, un riconoscimento politico del valore della testimonianza e un gesto che ponesse il fascismo come origine e causa della deportazione razziale. Basta guardarci intorno per vedere che quel filo nero è ancora vivo: le pietre d'inciampo vengono vandalizzate appena poste; bagni marittimi dove si inneggia al Duce non vengono chiusi; band musicali nazirock che glorificano l'Olocausto hanno potuto organizzare un raduno a Pordenone per il giorno della memoria. I segni di un'onda nera che cerca di rialzarsi sono molti e preoccupanti".

Lei ha ascoltato la voce di tre sopravvissute. Perché le voci delle donne della Shoah sono tanto importanti?

"L'esperienza femminile della deportazione, della prigionia e del ritorno è stata in parte uguale, ma in parte molto diversa da quella maschile, e questo ci dà strumenti per meglio capire cosa è stata la Shoah. Con il nazifascismo, l'opera di selezione che la cultura scientifica e antropologica europea aveva fino ad allora attribuito alla natura, divenne prerogativa umana. Ad Auschwitz si facevano esperimenti sulle prigioniere per studiare come procedere alla sterilizzazione di massa delle 'donne indegne di riprodursi' e come indurre parti plurigemellari nelle 'donne di razza ariana'. Le strutture dello sterminio sorgevano a Birkenau, dove, a detta dello stesso comandante di Auschwitz-Birkenau, Rudolf Höss, l'aspettativa di vita delle prigioniere che non venivano assassinate direttamente all'arrivo non superava i tre mesi. Le donne, affamate e sottoposte a lavori forzati, vivevano davanti ai crematori, separate dai figli che venivano eliminati all'arrivo".

Cosa le hanno saputo trasmettere in particolare le tre testimoni che ha potuto intervistare?

"La violenza inimmaginabile che hanno subito, il lutto, l'offesa, la disillusione nella cultura nella quale sono cresciute non sono bastate a farle disamorare dell'umanità. Il loro continuo, faticoso, accanito tentativo di farci capire mi commuove e mi riempie di rispetto e riconoscenza. Tanto più dopo aver potuto conoscere ciò che non mostrano in pubblico: la delusione, la fatica, il dubbio che a volte le coglie quando avvertono una sorta di banalizzazione della loro testimonianza, l'assenza di un ascolto profondo e partecipe. 'Una goccia nel mare dell'indifferenza', è solita ripetere Liliana Segre. Eppure continuano a testimoniare, nella speranza che quella goccia ci riscuota, ci renda responsabili. Ecco, questo mi hanno trasmesso: il senso di una responsabilità, che non riguarda solo il passato, ma l'oggi. E – per Liliana e Goti – la stupita gratitudine per il miracolo della loro amicizia che ancora mi accompagna".
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