Nel 1947 Enzo Ferrari era un uomo di quasi cinquant’anni. Aveva già trascorso una vita a contatto con le auto da corsa. Era stato prima un pilota e aveva gestito una scuderia da corsa che aveva vinto moltissimo con i bolidi dell’Alfa Romeo guidati da Tazio Nuvolari.

Era benestante e poteva dirsi un uomo realizzato. Aveva però un sogno: costruire auto che portassero il suo nome. Auto non solo velocissime ma bellissime da vedere e all’avanguardia. Icone di stile e prodigi della tecnica. In sintesi opere d’arte.

Nacque così, esattamente settant’anni fa, la Ferrari, uno dei più grandi miti italiani.

A raccontarci la storia e le leggende di questa azienda inimitabile e del suo fondatore è il bel libro di Leo Turrini, Enzo Ferrari. Un eroe italiano (Longanesi, 2017, Euro 18,60, pp. 300. Anche Ebook).

Un libro che parte proprio da Ferrari, vero gigante dell’imprenditoria nostrana, per descriverci quella stagione irripetibile che ha segnato il passaggio dell’Italia da paese contadino a potenza industriale. Di questo momento storico l’uomo di Maranello fu il protagonista assoluto.

Leo Turrini lo può confermare?

"Oggi la Ferrari è un brand mondiale, tra i più conosciuti al mondo. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza Enzo Ferrari, uomo della campagna modenese cresciuto tra i contadini.

Fu lui a intuire che i figli di questi contadini sarebbero diventati i migliori meccanici del mondo. Fu lui a perseguire quel sogno che oggi si chiama Ferrari.

Un uomo eccezionale, non un santo certamente, però una delle più alte espressioni del Novecento italiano. Purtroppo oggi ci si è un poco dimenticati di Enzo Ferrari quasi che la sua azienda sia il frutto del caso".

Cosa invece ci può ancora dire Enzo Ferrari?

"Prima di tutto dovremmo domandarci se uno come Ferrari potrebbe realizzare il suo sogno nell’Italia del 2017. Temo di no, purtroppo. Enzo Ferrari può comunque insegnarci la forza che possono avere le idee. Ci insegna il coraggio di perseguirle a tutti i costi. Ci fa capire l’importanza di avere una visione del futuro, di possedere lungimiranza. Per lui l’auto non era solo mezzo di locomozione, era ben altro.

Tanti avevano fatto auto sportive prima di Ferrari. Ma lui fu il primo a credere che le auto potessero diventare status symbol, opere d’arte. Oggetti che si vendono perché sono capolavori e vincono in pista e quindi non hanno bisogno di alcuna pubblicità. Fu insomma una sorta di Steve Jobs del XX secolo: un precursore".

È vero che Ferrari era un innamorato dell’Italia?

"Era un uomo nato alla fine dell’Ottocento e imbevuto di cultura risorgimentale. Un nazionalista. Aveva un senso della patria fortissimo e questo elemento influenzò anche le sue scelte imprenditoriali. Per esempio, fece di tutto perché la Ferrari fosse acquistata dalla Fiat negli anni Sessanta e rimanesse in mani italiane rifiutando un accordo economicamente molto vantaggioso con la Ford".

È vero che per lui la macchina contava più di qualsiasi pilota?

"Per Ferrari il pilota era un dipendente, un collaboratore che un domani poteva poi passare alla concorrenza. La Ferrari, marchio e autovettura, era più importante di tutto. Per questo quasi mai ingaggiava campioni già affermati. I piloti dovevano diventare grandi guidando le sue auto".

Chi amò di più tra i piloti?

"Prima della guerra Tazio Nuvolari, per lui rimase sempre il più grande. A lui paragonava Gilles Villeneuve. Poi ammirò l’austriaco Niki Lauda che arrivò a Maranello da sconosciuto e divenne lì un campionissimo. Vale però la premessa iniziale: la Ferrari era molto più importante di qualsiasi pilota".

Roberto Roveda

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