Un'intensa riflessione, a partire dal dibattito che si è acceso negli ultimi giorni sul suicidio assistito e dopo la sentenza del 25 settembre, della Corte Costituzionale, secondo cui, in Italia, non sempre è reato aiutare a morire una persona determinata a togliersi la vita ma impossibilitata a farlo in autonomia.

In sostanza, pur con le molte specifiche del caso, non è punibile chi, come Marco Cappato, aiuta a morire una persona non autosufficiente che ha deciso liberamente di togliersi la vita.

Da qui si è aperto un ampio dibattito, alimentato dal grosso dilemma dei cattolici e dai dubbi di molti uomini di scienza.

Ma forse la domanda da cui è anzitutto necessario partire è proprio quella che pone il nostro opinionista, il medico cagliaritano Antonio Barracca, di cui riportiamo il pensiero. Che a lungo si sofferma sullo stridente vuoto, in materia, della nostra politica.

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Di chi è la vita? Forse ha ragione chi pensa che non abbia molto senso porsi questa domanda. Da alcune migliaia di anni l'uomo nasce e muore senza aver dato mai una risposta a questo interrogativo.

Chi crede in Dio ritiene che ci sia un progetto e quindi un senso soprannaturale nella vita dell'uomo e della natura; chi invece non ci crede ritiene che la vita sulla terra e quella dell'uomo siano frutto "del caso e della necessità" e che con la morte tutto finisca.

Ma la vita che comunque viviamo, di chi è? Possiamo ritenerla nostra? Possiamo spenderla come ci pare? Dobbiamo renderne conto a qualcuno?

"Di chi è la mia vita" è il titolo di un film di qualche anno fa nel quale Richard Dreyfus interpreta la parte di uno scultore che una mattina di un giorno qualsiasi finisce con l'auto sotto un camion e resta paralizzato dal collo in giù; non solo, per continuare a vivere deve fare la dialisi.

Questa condizione modifica radicalmente la sua esistenza, tanto da spingerlo a pensare di essere un uomo morto. L'arte, la scultura erano, infatti, tutta la sua vita. Questa nuova condizione che imprigionava il corpo e gli impediva di esprimere l'arte che aveva dentro, era la morte del suo spirito. Ma no, diceva John Cassavetes, nella parte del medico, tu sei solamente depresso. Se curiamo la depressione tu potrai vivere bene accettando anche questa nuova condizione di vita. Convinto che ormai il suo spirito sia definitivamente morto, Dreyfus chiede di poter interrompere il filo che lega il suo corpo alla vita, di sospendere cioè la dialisi. Combatte perciò una solitaria battaglia che lo porterà fino alla Corte Suprema che riconoscerà le sue ragioni.

La realtà quotidiana è molto più articolata. Fra i malati terminali e quelli affetti da gravi infermità si riscontra sia la difficoltà di accettare una vita comunque difficile, fatta di dolori e di dipendenza fino a chiederne la interruzione, che quella di voler continuare a vivere comunque e di sperare.

I casi singoli non possono far legge. Ma noi abbiamo bisogno di leggi; e queste rispecchiano la cultura dei popoli, il livello del dibattito etico, l'influenza delle culture laica e religiosa. Ma il problema comunque esiste ed è maturo. La legislazione più permissiva, in quest'ambito, è quella olandese che dal 2002 autorizza l'eutanasia per i malati incurabili dai 12 anni in su, in caso di sofferenze intollerabili, e che è stata, successivamente, aggiornata da un protocollo fra le autorità giudiziarie olandesi e la clinica universitaria di Groningen, che stabilisce che l'eutanasia possa essere praticata sui bambini al di sotto dei 12 anni e persino sui neonati.

Vorrei riprendere il filo del ragionamento per rispondere alla domanda iniziale, "Di chi è la vita ?". Si nasce e si muore da soli e l'unica cosa che possiamo fare è dare un senso alla vita. Non solo alla nostra vita, ma anche a quella dei nostri simili con i quali abbiamo la fortuna di percorrere assieme questa meravigliosa avventura. La sfida della vita perciò è quella di costruire un società che dia a tutti la possibilità di esprimere se stessi nella buona e nella cattiva sorte; un sistema sociale che, attraverso l'amicizia, la solidarietà, il lavoro e la sicurezza sociale dia a tutti il senso compiuto di appartenenza ad una società.

Solo in questa maniera sarà possibile affrontare la vita con le sue inevitabili difficoltà e vincere così la paura dell'ignoto che ci accompagna fin dalla nostra nascita.

Antonio Barracca - Medico, Cagliari
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