Sull'etimologia ci sono pochi dubbi: il nome, Stampace, deriva, quasi certamente, dalla locuzione latina "sta in pace" (cioè, riposa in pace, rivolto, ovviamente, ai defunti). Resta, però, da capire per quale ragione il quartiere ai piedi di Castello si chiami in questo modo. Alcuni studiosi sostengono che il nome sia dovuto al fatto che, in quella zona, ci fossero molte tombe rupestri, anche di epoca molto antica. Una spiegazione plausibile.

Ma quanto reale? Impossibile rispondere. Anche perché quel toponimo, Stampace, non esiste esclusivamente a Cagliari. A Pisa esiste il bastione Stampace, fortificazione delle mura nella zona di Porta a Mare. Precisazione indispensabile perché proprio i Pisani regnarono sulla città nel tredicesimo e quattordicesimo secolo. Un toponimo autoctono o di importazione? Domanda da un milione di euro. Puntare sull'origine pisana, se non altro, servirebbe ad accreditare la leggenda di "su son'e corru" (il suono del corno). Durante la dominazione pisana (ma, purtroppo, anche in seguito), i cagliaritani potevano entrare in Castello soltanto per lavorare. Poi, al calare della sera, doveva uscire dalla zona fortificata. Un momento che veniva segnalato, appunto, dal suono di un corno. Se qualcuno si attardava, secondo la leggenda, veniva portato dai soldati al bastione di Santa Croce. E, dopo il peloso augurio "Sta in pace", veniva buttato giù, nel quartiere sottostante, Stampace, appunto. Una leggenda che, in qualche modo, confermerebbe l'origine pisana del nome.

Pochi dubbi, invece, sul nomignolo che è stato affibbiato agli abitanti di questo quartiere, "cuccurus cottus". Anche se, a dire il vero, nel sardo parlato a Cagliari, il termine cuccuru non è molto usato: significa, comunque, sommità, cima di una montagna. Ma, per traslato, indica qualunque parte alta. Quella anche quella del corpo umano, cioè la testa. "Cuccuru cottu" significa, dunque, testa calda.

Perché "is stampaxinus" sono teste calde? Anche in questo caso, bisogna tuffarsi nella leggenda. Dopo la dura giornata di lavoro in Castello, gli stampacini tornavano nel loro quartiere. Che, se non altro, offriva qualche momento di distrazione: in particolare, l'attuale corso Vittorio Emanuele II sarebbe stato ricchissimo di osterie e taverne. Credibile? In effetti, quello che ora chiamiamo per comodità Corso, in realtà era diviso in tre parti (anzi, in quattro se consideriamo anche viale Trento che, sino a tempi relativamente recenti, veniva indicato come "su brughixeddu"). Perché il vero borgo, "su brugu" era la parte che andava dalla chiesa dell'Annunziata a via Caprera. Poi, sino a via Sassari, era "s'arruga de is ferreris" ("la strada dei fabbri"). L'ultima parte, quello che porta al largo Carlo Felice, era, infine, "sa passillara" ("la passeggiata"). Credibile, dunque, che soprattutto questo tratto ospitasse bettole di ogni genere.

E, come in ogni bettola che si rispetta, il vino scorreva a fiumi. Con esiti spesso nefasti. Perché, nei tempi antichi, rientrava nella normalità portare con sé armi da taglio. Le risse, con esiti mortali, erano, dunque, molto frequenti. E, visto che "is stampaxinus" tendevano, comunque, a fare comunella, ad avere la peggio era gli abitanti di qualche altro quartiere che finivano da quelle parti.

Magari, anche questa è una leggenda. Alla quale, però, gli stessi stampacini sono molto legati. E lo sottolineano in tanti modi. A cominciare dalla loro parlata: il sardo di Stampace sembra essere molto più aggressivo di quello usato in altri quartiere. Non soltanto: nonostante la presenza di molte chiese (in particolare, quella dell'Annunziata e, in viale Trieste, del Carmine) e di molti fedeli, gli abitanti di questo quartiere non indugiano in particolare cerimonie religiose (come, invece, capita a Villanova con i riti della Settimana santa). Certo, si potrebbe obiettare che la cerimonia più amata dai cagliaritani, la Festa di Sant'Efisio, parte dall'omonima chiesetta, proprio in pieno Stampace.

Sino a qualche anno fa, gli stampacini si dedicavano con grande impegno all'organizzazione di una festa che si celebrava in piena estate. Il nome? Naturalmente "Cuccurus cottus". Ed è sempre stata una festa molto laica, senza alcun richiamo religioso. Una festa molto bella e divertente. Anche se, purtoppo, bisogna parlare al passato. Alcuni anni fa, qualche esponente politico locale ha tentato di strumentalizzare elettoralmente la festa, creando un comitato organizzatore parallelo rispetto a quello ufficiale. Il risultato? La festa de "Is cuccurus cottus", purtroppo, è soltanto un ricordo.
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