Stasera alle 18 a Burcei, nel contesto della Festa di Santa Barbara in fase di svolgimento da alcuni giorni, sarà presentata  una ricerca storica sui soldati del paese finiti nella seconda guerra mondiale nei campi di concentramento nazisti. Un lavoro che i ragazzi della Terza B della scuola Media e la loro insegnante Michela Orgiana, hanno portato avanti in orario extrascolastico in collaborazione con la biblioteca comunale, la sezione ANPI, i soci della sezione "Isidoro Frigau".  

Le ragazze e i ragazzi della scuola di Burcei (Chiara Rosa Saddi, Sofia Zuncheddu, Federico Lorrai, Hanaah Tarik, Lorenzo Mucelli, Andrea Puliga, Daniele Serra, Gloria Saddi e Aurora Cinus), hanno elaborato i fascicoli militari dei soldati del Regio esercito: Giovanni Campus (classe 1921), Luigi Frigau (classe 1920), Diodato Muccelli (classe 1920), Efisio Lussu (classe 1921), della Regia Marina Raffaele Cardia (classe 1924) e della Regia Guardia di Finanza: Agostino Surcis (classe 1919) e Giovanni Zuncheddu (classe 1922), concessi dall’Archivio di Stato di Cagliari e dalle famiglie oltre alla schede online della banca dati LeBi (lessico biografico IMI), riassumendo le loro vicende militari prima e dopo l’8 settembre 1943 e le vicissitudini che li portarono all’internamento nei campi di concentramento nazisti del terzo Reich e al lavoro coatto, sotto la sorveglianza della Wehrmacht. 

Tra i soldati di Burcei, Raffaele Cardia morì il 20 febbraio  1944 a Guben in Germania, (oggi Gubin in Polonia). Le sue spoglie sono sepolte nel cimiero di Bielany (Varsavia).  Agostino Surcis morì nel sanatorio di Wittlich, Marie Grünewald, il 31 agosto del 1945. E' sepolto nel Cimitero Militare italiano d’Onore di Francoforte sul Meno. Gli altri sono tornati a Burcei nel 1945, dopo la liberazione dei campi di internamento da parte dell’esercito britannico, americano e sovietico. Qualche anziana ricorda il loro ritorno. Accorse tutto il paese a incontrarli. Fu una grande gioia: a Burcei c'era la convinzione che erano morti visto che di loro, da tempo, non si avevano notizie. 

La storia è nota. I soldati italiani, catturati e disarmati dagli ex alleati tedeschi dopo l’armistizio, furono stipati nei vagoni bestiame, trasportati nel territorio del Terzo Reich, internati nei campi di concentramento e obbligati a lavorare nelle aziende tedesche (miniere, fabbriche chimiche, belliche, fattorie, cantieri navali, officine di meccanica pesante e leggera); Hitler in persona coniò per loro l’appellativo di IMI (Internati militari italiani) così da aggirare il divieto di adibizione al lavoro forzato, sancito dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra, privandoli così anche dell’assistenza della Croce Rossa Internazionale.

Nella gerarchia dei lager i sovietici erano trattati come le bestie, gli italiani venivano subito dopo.

Malvestiti, denutriti, stipati in baracche di legno dalle coperture precarie, gelide d’inverno e soffocanti in estate anche per il proliferare dei parassiti che ricoprivano i soffitti, soggetti a violenze e soprusi di ogni genere, privi di assistenza medica e di servizi igienici adeguati, costretti a lavorare per dodici-quindici ore al giorno, trascorsero venti mesi nei lager nazisti, senza poter comunicare con le famiglie che li credevano morti.

Nessun rifiuto poteva essere opposto al lavoro forzato senza incorrere in durissime e severissime punizioni; non mancavano gli interventi con le armi da parte del personale di guardia.

Per una massa di uomini stanchi della guerra, avviliti e demoralizzati e soprattutto denutriti la privazione del cibo fu la punizione peggiore messa in atto dalle imprese per costringerli a lavorare. 

Per un lavoro di settantadue e più ore settimanali, domenica compresa, ricevevano un salario equivalente ad un terzo della paga di un lavoratore tedesco, date le trattenute per vitto e alloggio e per le tasse.

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