Il 10 febbraio saranno trascorsi 130 anni dalla sua nascita, il 30 maggio 60 dalla sua morte. Decenni. Eppure Boris Pasternak sembra più attuale che mai. L'autore de "Il dottor Zivago" è da tempo sotto la luce delle lampade dei lettori più attenti per l'altra parte della sua produzione letteraria: quella in versi. Alla imprescindibile e tempestiva antologia Einaudi ("Poesie", curate e tradotte da Angelo Maria Ripellino, destinato a rimanere a lungo la "voce" italiana di Pasternak), nei due anni scorsi si sono affiancate le pubblicazioni di due splendide raccolte, "Temi e variazioni" e "Sui treni del mattino", nella collana Passigli fondata da Mario Luzi. Resta invece fuori catalogo, purtroppo, la traduzione (pubblicata vent'anni fa da Mondadori) di una raccolta-chiave come "Mia sorella la vita". Una delle riviste letterarie online più vivaci e interessanti degli ultimi anni, Pangea.news, dedica a Pasternak un'attenzione continua. Soprattutto al Pasternak poeta.

Chi ha letto "Il dottor Zivago" sa che la narrazione si conclude con una sequenza di splendidi componimenti in versi. Una presenza non casuale. Pasternak, fino alla rocambolesca pubblicazione del suo romanzo capolavoro, nell'Unione Sovietica era famoso come poeta. Famoso come oggi è difficile immaginare che un poeta possa essere. A partire dagli anni Venti, quando teneva letture pubbliche, poteva capitare che se dimenticava un verso fosse il pubblico a suggerirglielo. Le sue poesie erano conosciute a memoria: un fenomeno tutt'altro che raro nella Russia del tempo. Per molti che soprattutto a partire dagli anni Trenta finirono nei lager sovietici, i suoi versi furono un salvacondotto per non perdere, fra i ghiacci, la propria umanità.

All'inizio della sua carriera le cose erano diverse. La sua notorietà era quella che il critico e scrittore Viktor Sklovskij definì «un bellissimo tipo di gloria: sotterranea». Pasternak piaceva a una ristretta cerchia di lettori aggiornati e attenti ai nuovi fermenti, soprattutto poetici. Figlio di un pittore (Leonid) che aveva l'onore di fare l'illustratore per Tolstoj ed era amico personale di Rainer Maria Rilke, Boris Pasternak era approdato ai versi dopo aver troncato sul nascere una promettente carriera da compositore musicale (era stato allievo di Skrjabin, e su Youtube oggi è possibile ascoltare alcune sue sorprendenti sonate), da poeta aveva sempre fatto scuola a sé, anche se per alcuni anni aveva partecipato da protagonista alla fiammeggiante stagione del futurismo russo: ammirava Vladimir Majakovskij (soprattutto la prima maniera) ed era da lui ammirato. Filippo Tommaso Marinetti, nel leggendario viaggio in Russia del 1914, strinse la mano a entrambi. Ma allora la star, per via della sua celebre blusa gialla e delle tumultuose letture pubbliche, era Majakovskij. Le prime raccolte di Pasternak ("Il gemello delle nuvole" e "Oltre le barriere") passarono quasi inosservate. Fece il botto, invece, "Mia sorella la vita", pubblicata nel 1922 ma con testi scritti nella cruciale estate 1917, quella che separava le due rivoluzioni russe: quella del Febbraio e quella, decisiva, dell'Ottobre. Sono versi difficili, concentratissimi. Gli eventi storici si vedono appena. A essere in rivolta è tutta la natura: gli alberi, le piante, le nuvole, la neve, il travaglio della primavera, ma soprattutto la pioggia. Pioggerelline, scrosci, acquazzoni, sgocciolii, pozzanghere dove di notte si riflettono le stelle (E traversare la strada dietro la siepe / non si può, senza calpestare l'universo): dalla lettura di queste poesie si esce zuppi.

Il mondo letterario russo del tempo ne fu scosso: alle lodi entusiastiche di Majakovskij, che quei versi li aveva visti nascere, si aggiunsero quelle di due fra i massimi poeti del Novecento, Osip Mandel'stam («questi versi sono taumaturgici esercizi di respirazione, potrebbero guarire un lettore tubercolotico») e Marina Cvetaeva («Pasternak è un inesauribile acquazzone di luce»). La gloria, a quel punto, smise di essere sotterranea. E fu un guaio per Pasternak.

Inizialmente entuasiasta della rivoluzione bolscevica, con gli anni, davanti a un regime che si faceva sempre più assolutistico, autoritario, oppressivo e censorio nei confronti della libera espressione artistica e letteraria, il poeta cercò di ritirarsi in disparte. Dopo un paio di poemetti epico-lirici e altre due raccolte ("Temi e variazioni" e "Seconda nascita"), durante la stagione del Terrore staliniano, vide tanti poeti e scrittori suoi amici varcavare uno per uno il portone della Lubjanka per poi sparire nel nulla della Kolyma o dell'arcipelago Gulag. Ammutolì. Smise di scrivere e di pubblicare. Ma «la vita non è attraversare un campo», come dirà il verso finale di "Amleto", una delle poesie de "Il dottor Zivago". Una notte fu svegliato dalle persone con cui condivideva l'appartamento di famiglia. Lo cercavano al telefono dal Cremilino. Era Stalin in persona. Qualche giorno prima il povero Mandel'stam, uomo innocuo e poeta sopraffino, era stato arrestato per aver composto (nemmeno messo per iscritto: troppo pericoloso) alcuni versi satirici sul dittatore georgiano («il montanaro del Cremlino»). E il potente sbeffeggiato, adesso, al telefono, voleva sapere da Pasternak quanto fosse bravo il poeta che aveva osato attaccarlo: era un vero maestro? Pasternak esitò. Erano, come diceva Anna Achmatova, altra grande poetessa dell'epoca, «tempi carnivori». Una parola di troppo, in quelle circostanze, poteva significare una condanna a morte, il confino, i lavori forzati in Siberia. Dopo una pausa che immaginiamo interminabile, balbettò qualcosa di confuso sulle caratteristiche delle poesie di Mandel'stam e delle sue. Stalin lo insultò: «Non sai nemmeno difendere un tuo amico? Io, al tuo posto, mi sarei fatto in quattro per lui». Facile, quando sei Stalin. Pasternak, a quel punto, trovò il coraggio di rilanciare: «Mi piacerebbe incontrarla, compagno Stalin. È da tempo che vorrei parlarvi di altre cose». Di cosa?, domandò il dittatore. «Della vita e della morte». Si sentì un clic. La telefonata era finita.

Il regime risparmiò il poeta («Lasciatelo pure vivere fra le nuvole», pare sia stata la frase di Stalin), ma pretese la sua presenza al congresso degli scrittori di Parigi, nel 1935, in rappresentanza dell'Unione Sovietica. Ci andò in condizioni pietose: non dormiva da giorni. Trovò la forza di dire poche parore luminose sulla poesia: «Giace nell'erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell'uomo».

Solo dopo la guerra Pasternak decise di raccontare cos'era stata e cos'era la vita nella Russia di quei decenni e iniziò a scrivere il suo capolavoro. Ci impiegò anni. Prima edizione nel 1957, in Italia, per la Feltrinelli, con una storia che sembra un romanzo ed è stata ricostruita in maniera magistrale sette anni fa da Paolo Mancosu, uno stusioso sardo di filosofia della matematica oristanese che insegna Logica e Filosofia della Matematica all'Università di Berkeley, in California. Mancosu si è appassionato a questa storia oggi inimmaginabile (allora, a quanto pare, i romanzi potevano rovesciare imperi) e l'ha raccontata in un libro che ha fatto scuola, "Inside the Zivago storm". Consegne avventurose di manoscritti, pressioni diplomatiche, la mobilitazione di due o tre servizi segreti, un carteggio tra lo scrittore e l'editore Giangiacomo Feltrinelli fatto di messaggi ufficiali in russo (da non tenere in considerazione) e segreti in francese (quelli dove Pasternak. Quando firmò l'accordo editoriale, lo scrittore disse: «La inviterò alla mia fucilazione». Invece sopravvisse. Olga, però, la donna che amava e che aveva ispirato il personaggio femminile del romanzo, Lara, pagò per lui: finì in un lager. Pasternak fu costretto dallo Stato sovietico a rifiutare il premio Nobel per la letteratura (1958). Due anni dopo morì. In Russia il romanzo si è potuto leggere solo nel 1988, quando fu pubblicato sotto Gorbacev, poco prima della dissoluzione dell'Unione Sovietica. Fino ad allora, per i suoi connazionali, Pasternak era rimasto essenzialmente un poeta. Un grande poeta. Uno dei più grandi del Novecento.
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