Era il 3 settembre del 1982 quando in un agguato mafioso venivano trucidati a Palermo, in via Isidoro Carini, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo.

Dalla Chiesa e la moglie erano in auto per andare a cenare in un ristorante di Mondello, seguiti da un'Alfetta guidata dall'agente di scorta, quando un commando li raggiunse e aprì il fuoco con fucili d’assalto. I coniugi morirono sul colpo, l'agente dopo dodici giorni di agonia.

La sfida di Dalla Chiesa alla mafia, cominciata a Corleone come giovane ufficiale dei carabinieri e proseguita a Palermo tra gli anni Sessanta e Settanta, era ripresa il 30 aprile 1982. Era stato appena ucciso Pio La Torre e Dalla Chiesa aveva dovuto affrettare i tempi per assumere di corsa l'incarico di superprefetto.  Il suo progetto era quello di colpire la struttura militare di Cosa nostra e di spezzare il sistema di collusioni tra mafia e politica.

Ma non ha avuto il tempo: sin dall'annuncio della nomina Cosa Nostra preparava la sua offensiva. «Quando ho sentito alla televisione che era stato promosso prefetto per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete», raccontava Totò Riina al capomafia pugliese Alberto Lorusso in una conversazione intercettata in carcere.

A sparare era stato un gruppo di fuoco di Cosa Nostra ma c'era una «causale non direttamente ascrivibile alla mafia». Di questo era convinto Pietro Grasso quando, da procuratore nazionale antimafia, si chiese se si potesse affermare che «tutta la verità è stata accertata, che tutte le responsabilità sono state scoperte».

Quella domanda resta ancora aperta 41 anni dopo la strage, come hanno sottolineato i giudici della Corte d'Assise: «Si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d'ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all'interno delle stesse istituzioni, all'eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». Così si legge nella sentenza che ha condannato all'ergastolo con la cupola Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia.

L'unica cosa certa l'ha scritta una mano anonima nel luogo dell'attentato: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». 

(Unioneonline/D)

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