Barbara W. Tuchman (1912-1989) è stata una delle maggiori giornaliste e narratrici di storia del XX secolo. Grazie ai suoi libri - primo fra tutti I cannoni d’agosto (1962),  dedicato alle vicende che portarono allo scoppio della Prima guerra mondiale - vinse ben due premi Pulitzer. Soprattutto dimostrò che si può fare della grande narrazione storica, coinvolgente come e più di un romanzo, senza venire meno alla veridicità dei fatti e senza tradire lo spirito dei protagonisti e di epoca lontane dalla nostra. A dimostrarlo è un volume dato alle stampe per la prima volta nel 1978 e per molto tempo assente dai cataloghi italiani: “Uno specchio lontano”, recentemente riproposto da Neri Pozza (2020, pp. 800, anche e-book).

Nel libro la Tuchman ricostruisce, partendo dalle cronache dell’epoca, un secolo di avventure, guerre, cavalieri, ma anche calamità e pestilenze: il Trecento. Un secolo che, come il tempo che stiamo vivendo, fu un’epoca in bilico tra luci e ombre, un’epoca in cui gli esseri umani sembravano proiettati verso l’avvenire, ma nello stesso tempo si ritrovavano sull’orlo dell’abisso.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

L’Europa del primo Trecento era, infatti, un mondo di città, di rotte commerciali, di mercanti, di università, di intellettuali come Dante e Petrarca, di banchieri e notai. Era però una società assai fragile, una società che aveva raggiunto i limiti della propria espansione in relazione al numero degli abitanti e alle capacità produttive di una agricoltura che era ancora primitiva. Il mondo medievale, quello stesso che realizzava le grandi cattedrali, la Divina Commedia e gli affreschi di Giotto, non aveva praticamente mezzi per opporsi alle forze della natura e in più non disponeva di raccolti sufficienti a sfamare una popolazione cresciuta vertiginosamente. In questo quadro, furono sufficienti alcuni anni di siccità, una serie di alluvioni, un calo sensibile delle produzioni agricole per allungare su tutto il continente lo spettro della carestia. Le campagne medievali furono allora percorse da processioni di contadini cenciosi e denutriti costretti a sopravvivere mangiando erba, come le bestie. Non a caso, è in quest’epoca drammatica che fioriscono le tante favole che raccontano di bambini abbandonati nel bosco perché i genitori non erano in grado di nutrirli, come avviene in Pollicino e Hansel e Gretel.

Al dramma della povertà e della fame non sapevano rispondere le istituzioni politiche, che anzi contribuirono a peggiorare le cose. Una guerra senza fine, la guerra dei Cent’anni, contrapponeva Inghilterra e Francia, devastando le terre più ricche e lasciando il continente in balia delle compagnie di ventura. La Chiesa era contesa da due papi, uno a Roma e l’altro ad Avignone, mentre i turchi minacciavano la stessa Europa. Ma furono soprattutto le tensioni sociali a esplodere, complici la fame e la disperazione. I contadini, ma anche i ceti più poveri delle città cominciarono a ribellarsi contro quei potenti che continuavano a vivere nell’agio, mentre il resto del mondo sopravviveva appena oppure moriva. I popolani e i contadini, armati di forconi e roncole, cominciarono ad assalire i cavalieri, a disarcionarli e finirli a terra, mentre come tartarughe cercavano di proteggersi nelle loro armature metalliche. I nobili risposero con le scorrerie e le esecuzioni sommarie di chi cercava di sovvertire l’ordine costituito.

Le immagini idilliache delle miniature e degli affreschi del Duecento, con città ordinate e campagne arate come giardini diventarono un ricordo. Anzi, svanirono anche dalla memoria quando giunse in Europa la peste e con essa la morte. Arrivò inattesa dall’Asia, dopo secoli che l’Europa non aveva più conosciuto grandi epidemie. La chiamarono “peste nera” oppure “morte nera” e alla metà del Trecento sconvolse fin dalle fondamenta la società medievale segnandone in maniera indelebile l’immaginario. Le strade si riempirono di morti, il contagio si diffuse in maniera inarrestabile e incomprensibile per l’uomo medievale. Per molti fu una punizione divina per una società che aveva rinnegato Dio in nome del denaro e degli affari. Per altri fu il segnale che non aveva più senso pregare e fare penitenza e che si poteva solo vivere con frenesia il poco tempo che rimaneva.

Insomma, fatte le debite proporzioni, sotto tanti aspetti lo spirito di quei tempi ci appare come uno specchio, per quanto lontano e distorto, dei nostri anni. Barbara Tuchman, però, non si ferma a descrivere quelle peripezie antiche seguendo le orme di un uomo, Enguerrand VII signore di Coucy, che attraversò quell’epoca in tutta la sua tragedia e in tutta la sua magnificenza. Con acume ci mostra, infatti, la speranza che ci viene della storia. La civiltà occidentale sembrava al collasso, eppure il Trecento fu il secolo dei grandi poemi e della grande poesia italiana, dei romanzi cavallereschi, del pensiero filosofico e scientifico che si alimentava a Oxford, alla Sorbona, a Bologna, a Padova. Milano e Firenze erano le capitale finanziarie d’Europa. Venezia era il principale crocevia dei commerci. Il vento della storia stava quindi spazzando via un mondo che non aveva più ragione di essere, quello del feudalesimo e della cavalleria, per far posto alla modernità che di lì a pochi anni avrebbe preso le sembianze della nascita della stampa, della scoperta dell’America, degli splendori del Rinascimento. Il libro di Barbara Tuchman quindi smentisce le Cassandre sempre pronte ad annunciare la fine del mondo, quando le certezze traballano e serve coraggio per nuove sfide.

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