Era l'orgoglio di una comunità, di una nazione, del mondo intero, vanto di chi possedeva un bene così prezioso; un valore inestimabile da tutti desiderato, studiato e descritto con sommo interesse, riscontrabile nei più svariati testi scientifici, della letteratura e persino dell'architettura.

Le sue forme spettacolari, il tronco largo quasi nove metri con scanalature profonde e irregolarmente scolpite, la sua chioma fitta con rami lunghi e robusti che raggiungevano quasi venti i metri in altezza.

Era un capolavoro creato dalla natura, un raro monumento naturale e naturalistico. Ora non esiste più: divorato dalla furia delle fiamme in brevissimo tempo in quel maledetto giorno di luglio dell’anno 2021, lui che giorni di luglio ne aveva vissuto migliaia.

Secondo le stime infatti la sua età leggendaria avrebbe superato di gran lunga i tremila anni, raggiungendo per molti studiosi addirittura tremilasettecento anni. Era già millenario alla nascita di Roma e di Gesù Cristo e quando i nuraghi facevano la loro comparsa in Sardegna.

Nella mia famiglia talvolta, parlando dell’antico olivastro, ricordavano che uno zio, giovanissimo di anni diciotto, partendo per Caporetto nel corso della guerra del 1915/18, volle passare a “Sa tanca manna” allo scopo di salutare il patriarca millenario per il quale aveva grande rispetto e venerazione e per portare con sé sul fronte di guerra un rametto della sua chioma, sicuro che la sua compagnia gli desse coraggio, conforto e fiducia nelle anguste trincee friulane.

Fra i numerosi aneddoti che si raccontano della sua lunga esistenza, si ricorda un'accesa disputa intervenuta nell’anno 1661 tra gli allora proprietari del terreno dove sorgeva l’olivastro e Francesca Zatrillas, contessa del feudo di Cuglieri del quale accampava diritti di proprietà privata, incantata com’era e perdutamente posseduta da tutto il complesso di quelle meraviglie. L’aspra controversia si protrasse per diverso tempo durante il quale molti concittadini coadiuvarono i legittimi proprietari in difesa dell’olivastro millenario, costringendo in tal modo la nobile donna a rinunciare ai suoi capricciosi voleri.

Erano evidentemente altri tempi nei quali esisteva la coscienza che i beni e tutte le risorse che la natura ci offre sono patrimonio di tutti.

I nostri avi le apprezzavano nel giusto modo e soprattutto le rispettavano, consapevoli di averle ereditate con la coscienza di doverle trasmettere alle generazioni future. Negli anni recenti questi concetti non esistono più, per cui sarebbe necessario un cambiamento radicale delle coscienze che renda desiderabile il bene comune.

L’olivastro millenario negli ultimi tempi non era più considerato un bene comune dal valore inestimabile. Non era tutelato come avrebbe dovuto essere; quasi sconosciuto alle nuove generazioni era solamente un albero anonimo che occupava spazio, circondato da rovi e sterpaglie che ne rendevano difficile anche l’accesso.

Le sue fronde, che hanno regalato ombra e protezione a uomini e animali per tanti secoli, ora evidenziavano rami secchi e trascurati e i parassiti che in numero sempre più consistente colonizzavano gli anfratti del suo enorme tronco lasciavano purtroppo presagire il suo destino.

Olivastro millenario addio.

La nostra generazione si sentirà colpevole di averti perduto per sempre, con la consapevolezza di avere fatto poco per averti ancora tra di noi e beneficiare ancora della tua maestosa autorevolezza e prestigio nel mondo.

Gianfranco Pinna 

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