A considerare che De Mita e Berlinguer furono contemporanei, e per un paio di anni la leadership del primo sulla Dc coincise con quella del secondo sui comunisti, viene da controllare su Wikipedia se è davvero così. Perché fra i due più che un’epoca sembra che corra un’era. Morendo sul palco del comizio, Berlinguer entrò drammaticamente nella storia. Sopravvivendo per decenni al proprio potere De Mita optò per la geografia, nel senso che si inserì lentamente nel paesaggio.

E pareva una di quelle colline solitarie che catturano lo sguardo del viaggiatore della 131, che osservandone la forma pensa per un istante: un tempo doveva essere un vulcano. E così – più della staffetta con Craxi, più delle liti con Cossiga, più di Mastella e di ogni altra cosa – a congedarsi da Ciriaco per prima cosa torna in mente l’accento. Anzi: l’accendo. Quella cadenza languida, quei vezzi fonetici da provincia meridionale che del napoletano non avevano il fascino né il brio. La sensazione era che De Mita avesse un concetto così elevato delle cose che diceva che gli sarebbe parso civettuolo scandirle in grazia di Dio. Un po’ come un grande artista astratto che non vuol perdere tempo a imparare il disegno. Forse si sopravvalutava. Di certo sopravvalutava noi che lo stavamo ad ascoltare (e neanche troppo, in realtà).

© Riproduzione riservata