G lobalizzazione, parola che ci affascina e ci impaurisce. Cominciò quando la comunicazione violò il reticolato spaziotemporale che ci imprigiona. Abbatté le frontiere della geografia fisica e politica, ci immise in una nuova dimensione psichica. Superato lo shock iniziale, ci siamo abituati a stare qui e lì contemporaneamente: fisicamente comodi in casa ma con la mente lontana migliaia di miglia, là dove la porta il cursore che lampeggia sullo schermo del computer. Assuefatti a questa dualità psicofisica abbiamo accolto, ora con entusiasmo ora con diffidenza, le altre derivate forme di globalizzazione. Alcune le abbiamo piegate alle nostre convenienze, altre ci hanno travolto senza darci tempo e modo di capirne gli effetti e di contrastarle. Abbiamo globalizzato ricchezza e povertà, salute e malattia. Le economie degli stati sono diventate tessere di un'economia unica mondiale, un sistema a vasi comunicanti dove si annidano agenti patogeni le cui infezioni viaggiano alla velocità delle contrattazioni di Borsa. Il Coronavirus ce ne sta dando conferma. Non incute paura soltanto per il suo tasso di mortalità; ci spaventa anche per la conseguente decrescita del Pil mondiale. Fra i due mali non sappiamo quale sia il peggiore. Un dubbio che fa di noi folli e cinici apprendisti stregoni.

TACITUS
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