Nel nostro viaggio alla scoperta dei primi tradizionali oggi parliamo dei “zappueddus” «perché le nonne tagliavano la pasta, la schiacciavano con il palmo della mano sul tavolo di lavoro, che prima era di legno. Poi la buttavano sull’acqua bollente» o anche “spizzua e ghetta”, «perché l’impasto viene pizzicato dalla base madre e buttato nell’acqua bollente» ci racconta Antonio Virdis, del ristorante “S’Anninnia” di Gonnesa.

«La pasta è fatta con la farina integrale ed è così scura da sembrare crusca. Si prepara una miscela con 600 grammi di semola e 400 grammi di farina integrale; poi un semplice impasto con acqua e sale e per tenerli un po’ più amalgamati, si aggiunge un cucchiaio di strutto. Li impastiamo e, una volta che la pasta si è amalgamata e ha riposato in frigorifero, viene pizzicata, quasi come se fossero delle orecchiette pugliesi, però maltagliate, perché la pasta viene proprio strappata dall’impasto madre. Al ristorante strappiamo la pasta e impostiamo la sfogliatrice con un unico spessore. E quindi, pur avendo una forma irregolare, non ce n’è uno uguale all’altro. Appaiono come delle piccole e frastagliate foglie di albero. Ricordo che mia nonna a noi bambini ne preparava uno tondo, grande quanto il piatto. Noi usiamo delle forme piccoline: lo serviamo con un semplice sugo o con un ragù, di cinghiale o di agnello».

Qual è la versione più apprezzata? «Il cinghiale ha un sapore abbastanza forte, quindi il ragù d’agnello forse è quello che va per la maggiore» Accorgimenti particolari? «Rispetto alla farina 00, essendo un composto di semola e farina integrale, ha bisogno di più lavorazione, ma con una planetaria non è un problema. Riesce a renderla malleabile per poi lavorarla nell’acqua».

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