Segnatevi questo nome: Desmond Child. È un cantautore americano. Mai sentito? Possibile. Impossibile, invece, che non abbiate mai sentito la canzone più celebre che ha composto, firmandola a sei mani con il chitarrista Richie Sambora e con Jon Bon Jovi, che la cantava: "Livin' On a Prayer". ANNI OTTANTA Correva l'anno 1986, e mentre l'Europa sfornava successi sull'onda lunga della new wave, del new romantic, del synth pop negli Stati Uniti soffiava impetuoso il vento del pop-rock. Capelli cotonati, atteggiamenti sfrontati e, sotto la scorza da duri di strada, tanto romanticismo. Risultato, nel caso di Bon Jovi, un successo clamoroso. Livin' On a Prayer fu, insieme a "You Give Love a Bad Name", la grande hit della band: quattro settimane da numero uno nella classifica Billboard. Parliamo di un'altra epoca: ad avere il telefono cellulare erano pochi manager, internet era agli albori (proprio quell'anno, in autunno, avvenne la prima connessione dall'Italia, effettuata dal Centro nazionale universitario di calcolo elettronico presso l'Università di Pisa), il compact disc muoveva ancora i primi passi e la musica si comprava prevalentemente stampata sui vinili, a 45 o 33 giri al minuto.

IL PRESENTE Avanti veloce. Anno di grazia (si fa per dire) 2020. La musica continua a stamparsi su vinili (per una nicchia di mercato), sempre meno su compact disc (l'ultima fabbrica statunitense è stata chiusa due anni fa), "Livin' On a Prayer" è ancora una canzone assai ascoltata: «L'anno scorso ha ottenuto mezzo miliardo di flussi streaming tra Pandora e Spotify», ha raccontato il co-autore Desmond Child durante una puntata del podcast Talk Is Jericho. Mezzo miliardo.

Chissà che bei guadagni. Mica tanto: «Il mio compenso - ha rivelato il cantautore - è stato di 6.000 dollari. Tutto qui». Fatti due conti, fanno 500 dollari al mese. Da questa ammissione, secondo quanto ha riferito il sito Virginradio.it, è partita un'analisi interessante sulla situazione dell'industria musicale dal punto di vista degli autori: «I cantautori - ha affermato Childs - hanno ottenuto il bastoncino più corto da quando tutta la musica è diventata disponibile. Prima con un brano eravamo in grado di sfamare una famiglia, mentre ora non è così».

LA SITUAZIONE IN ITALIA In Italia la musica non è diversa. Chi scrive, due anni fa ha avuto modo di parlare in via confidenziale con l'autore di una canzone piuttosto conosciuta nel repertorio cantautorale italiano: un brano regolarmente eseguito durante i concerti da un cantautore fra i più importanti a livello nazionale, e trasmesso spesso nelle radio. Un successo che, negli anni Ottanta e Novanta, fruttava all'autore un incasso medio di 30 milioni di lire l'anno. Col crollo di vendite della musica sui supporti fisici (soprattutto su cd) l'accredito attuale, sosteneva l'autore, è franato a trecento euro l'anno. Una bella differenza.

CONTI IN TASCA AI DAFT PUNK Sette anni fa a sollevare il problema dichiarando guerra a una delle più importanti piattaforme di streaming musicale, Spotify, furono due pesi massimi della scena musicale mondiale: il frontman dei Radiohead Thom Yorke e David Byrne, già cantante dei Talking Heads. Il secondo, in un articolo pubblicato da The Guardian fece i conti in tasca agli autori del tormentone estivo di quell'anno, Get Lucky, ovvero i Daft Punk. Per poco meno di 105 milioni di ascolti singoli di quella canzone, i due musicisti col casco ricevettero da Spotify 26 mila dollari: diviso due, fa 13 mila dollari, ovvero poco più di mille euro al mese per aver fatto ballare tutto il mondo. Con cifre così, conlcudeva Byrne, non ne vale la pena. La piattaforma si difese rivendicato di aver distribuito, nei suoi primi cinque anni di esistenza, 200 milioni di dollari in diritti d'autore a musicisti che, col sistema di prima (ovvero lo scambio di copie digitali pirata nella rete senza regole) non avrebbero visto un cent.

E POI VENNE IL VIRUS I musicisti negli ultimi anni si sono riorganizzati. Hanno puntato molto sui concerti: l'esperienza di partecipare fisicamente a un'esecuzione unica e irripetibile ha conservato, anzi forse acquisito valore a fronte della digitalizzazione dell'ascolto. Poi è arrivato il coronavirus. Concerti fermi: un disastro per tutto un comparto, dai fonici ai facchini, dai tecnici di palco ai musicisti. Per chi ha pubblicato resta giusto lo streaming, coi suoi diritti streaming-ziti. A queste condizioni, però, il sistema-musica così come l'abbiamo conosciuto rischia di scomparire. E - non so voi - c'è poco da stare allegri.

Marco Noce
© Riproduzione riservata