Oggi compie 61 anni. Ma la festa c'è già stata: venerdì 22 maggio. Lo sapeva dalla mattina ma tra una cosa e l'altra il grande momento è arrivato nel pomeriggio. Stava in piedi da solo eppure gli hanno suggerito la sedia a rotelle. Lo hanno spinto fino al piazzale del Santissima Trinità e lì ha ceduto all'emozione. «Tutti i medici e gli infermieri in turno mi stavano aspettando. Applaudivano, mi facevano gli auguri, mi gridavano in bocca al lupo. Per la prima volta vedevo il loro volto. Avevo la pelle d'oca».

Alberto Cocco Ortu è sopravvissuto al Covid-19, e non è stato per nulla facile. Oltre due mesi di ospedale, uno in Terapia intensiva. «Mi hanno intubato due volte». Ed è stata paura grande. «Non riprendevo conoscenza e allora mi hanno reintubato, dopo qualche giorno ho cominciato a riavermi e ci hanno provato di nuovo». In quel momento è iniziata la ripresa. «Per fortuna mi ricordo poco o nulla».

Avvocato civilista e penalista, consigliere comunale a Cagliari durante la giunta Delogu negli anni Novanta, dal padre Francesco (stesso nome del bisnonno fondatore de L'Unione Sarda) ha ereditato la passione per il diritto e la politica che da tempo divide con la moglie Rita Dedola, penalista e assessore alla Pubblica istruzione nella Giunta Truzzu.

L'untore

Il telefono restituisce una voce allegra. Vuole ringraziare tutti per tutto ma prima ancora il pensiero è per il figlio Giovanni, 24 anni: «È stato insultato su Facebook, trattato come untore solo perché ai primi di marzo era rientrato a Cagliari da Milano dov'era stato a trovare la fidanzata che studia lì. Non aveva alcun sintomo eppure si era messo in quarantena volontaria. Stava nella sua stanza e non aveva contatti neanche con noi né con suo fratello. Gli hanno fatto tamponi, test, di tutto, ed è sempre risultato negativo. Il virus non lo ha sfiorato nemmeno di striscio».

Il cuore batte forte: quel ragazzo per molte settimane ha temuto di aver causato la malattia che stava portando il padre all'altro mondo. «Non è stato bene». Invece il figlio non c'entra nulla ed è impossibile sapere dove sia avvenuto il contagio. «Sono l'unico avvocato in Sardegna colpito dal Covid, che io sappia. Può essere stato chiunque, anche un positivo asintomatico. Non sono stato in viaggio, solo a Sassari che in effetti in quel periodo era abbastanza vivace». Sorride amaro nel mettere in fila vicende che non sono frutto del suo ricordo ma dei racconti successivi.

La febbre

La sua memoria si ferma all'8 marzo: «Avevo una febbriciattola, niente di che, nessun problema particolare. Ho preso tachipirina, solo che non mi passava. O meglio: la mattina la temperatura scendeva leggermente e la sera risaliva. Dopo qualche giorno ho parlato col medico di famiglia: mi ha detto di continuare con la tachipirina e di aggiungere un antibiotico. Sono trascorse altre 72 ore e avevo ancora la febbre. Ho ritelefonato al medico e la risposta è stata la stessa: dovevo proseguire con i due farmaci». Non si sentiva bene. Eppure: «Non non ho mai avuto il dubbio di avere contratto il Covid-19, sinceramente no. Respiravo bene, odori e sapori erano a posto. C'era un solo sintomo che ha subito fatto preoccupare gli esperti: quando parlavo mi mancava il respiro». Acciacchi tipici del fumatore incallito? «Neanche per sogno, mai fumato una sigaretta in vita mai, né altro, beninteso. Ogni tanto sfumacchiavo la pipa ma ho smesso da molto tempo». Problemi fisici? «Stavo benissimo, forse ero un po' sovrappeso». La febbre però non se ne andava. «Ho passato dieci giorni così poi abbiamo pensato di rivolgerci ad alcuni miei nipoti medici. E hanno deciso di chiamare l'unità di crisi. Sono arrivati subito». Erano vestiti come astronauti, bardati da capo a piedi, tuta, mascherina, visiera, guanti, calzari. «Non mi sono spaventato, tutto sommato mi hanno rassicurato, la saturazione dell'ossigeno era bassa e mi sono rassegnato al ricovero. Andiamo, ho detto. Ero abbastanza sereno.

Il ricovero

Una volta in ospedale c'è stato pure il tempo di tirare un sospiro di sollievo. «Mi hanno fatto il tampone, l'esito era negativo. Anche se la diagnosi è stata impietosa: polmonite. Dopo quindici, venti minuti però è arrivato il nuovo responso: positivo. Non è un caso se lo ripetono sempre». Lo hanno ricoverato in Geriatria: «Non c'era posto altrove». E dopo 12 ore lo hanno intubato. «Ho un vaghissimo ricordo. Anzi, non ricordo proprio nulla, fortunatamente, né di quando mi sono addormentato né di quando mi sono svegliato, quasi un mese dopo. Niente di niente. So solo di avere un po' vaneggiato». Il momento drammatico glielo hanno riferito successivamente: «Durante il ricovero in Rianimazione sono stato estubato ma non riprendevo conoscenza e allora mi hanno reintubato. Dopo qualche giorno sono tornato in me».

Il risveglio

I ricordi ricominciano poco dopo Pasqua: il 20 aprile. «Ero un po' suonato ma abbastanza presente». Medici e infermieri lo coccolavano, sempre attenti a non fargli sapere nulla di quello che stava succedendo in Sardegna, in Italia e nel mondo. «Non mi hanno detto nulla». È stato per tutto il tempo in una camera da solo, in isolamento, con l'ossigeno. «Medici e infermieri erano coperti, vedevo solo gli occhi ed erano sguardi sorridenti. Mi parlavano e mi dicevano sta andando bene, il recupero è buono. Poi è arrivato il momento più forte: la videochiamata con la moglie e i due figli. «È stato possibile quando sono uscito dalla Terapia intensiva, lì ogni contatto con l'esterno era precluso. Mi hanno caricato il telefonino che per fortuna non ho perso e li ho visti tutti... ahhhh... un'emozione pazzesca».

Sant'Efisio

È rinato. La moglie ha avuto un ruolo rassicurante, seppure a distanza. «Ero tranquillo, psicologicamente sono stato bene. E anche fisicamente: tutti i giorni mi chiedevano se avessi appetito e se fossi riposato. Ebbene, sì, mangiavo e dormivo». La malattia ha comunque lasciato segni evidenti. «Ho perso forse 15 chili». Ma stava sempre meglio e alla fine domandava di continuo quando mi fate uscire? «Mi hanno rivoltato come un calzino, ho fatto quattro tamponi, gli ultimi due prima delle dimissioni, tutti negativi». Nella stanza aveva un televisore: «Ho visto il passaggio di Sant'Efisio su Videolina, mi sono davvero commosso». Non sapeva che il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu avrebbe voluto che la statua facesse tappa davanti al Santissima Trinità e che solo un problema di ordine pubblico lo ha impedito. Davanti a questa notizia non dice nulla ma nel silenzio si intuisce un'altra botta emotiva.

La quarantena

«Sono uscito dall'ospedale il 22 maggio, di pomeriggio, mi hanno portato a casa in ambulanza». Quando è arrivato è sceso sulle sue gambe. «Mia moglie e i miei figli mi stavano aspettando dietro il cancello». Non si sono baciati né abbracciati. «Solo Giovanni mi ha dato la spalla». Felicità assoluta. «Ancora oggi non ci tocchiamo, ubbidiamo alle direttive, per scrupolo. Devo stare 14 giorni in quarantena e lo faccio. In casa rispettiamo le distanze perfino a tavola». È uscito solo una volta: «Sono andato in ospedale perché dovevano togliermi alcuni punti». È pelle e ossa, i capelli sono grigi ma la voce e il sorriso dicono più delle immagini: Alberto Cocco Ortu sta bene. «Devo dire la verità: non ho molta curiosità di sapere che cosa è successo in questi due mesi. I mie amici mi mandano video ma io non ho alcuna voglia di vedere nulla».

La nuova vita

Gli resta qualcosa di davvero grande: «L'affetto della gente. Ho ricevuto messaggi di tutti i generi da ogni parte d'Italia. Questo mi ha sinceramente colpito, è una cosa bella bella. So che hanno scomodato tutti i santi del paradiso e questo non lo potrò mai dimenticare». Come resteranno nel suo cuore i medici e gli infermieri del Santissima Trinità. «Dal primo all'ultimo giorno a fianco a me, devo tutto a loro».

Sa che cosa ha rischiato eppure lo sottolinea più volte: i suoi familiari sono stati peggio di lui. «Io del resto non mi sono accorto di niente, ha sofferto di più chi stava fuori ad aspettare il quotidiano bollettino medico». Questa drammatica vicenda gli ha insegnato pure altro: neppure gli abbracci sono indispensabili. «Il sorriso, basta quello, e ti ripaga di tutto».

Maria Francesca Chiappe

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