"La vita ti toglie e poi ti dà". Frase bella ma fatta. "No, è davvero così". Ma come?

A sei anni ha perso l'uso delle gambe e con quello l'infanzia e l'adolescenza... "Sì, ma ho girato il mondo, ho conosciuto un sacco di gente, ho fatto quello che ho sempre voluto: correre e sentirmi libera. Da bambina ero sempre in movimento, dodici anni dopo ero di nuovo io". Cristina Sanna, 46 anni, è la più grande campionessa paralimpica di atletica leggera che la Sardegna abbia mai avuto: titoli italiani nei 200, 400 e 800, maglia azzurra dal 1994 in poi, bronzo nei 200 ai Mondiali del 1998, medaglia negli 800 agli Europei, podio ai Giochi del Mediterraneo nel 2006, finalista al campionato del mondo in Olanda.

"Mi sono qualificata per le Paralimpiadi del 2000 ad Atlanta ma hanno fatto scelte tecniche diverse e non mi hanno portato". È successa la stessa cosa otto anni dopo, in vista di Pechino: "C'erano solo 5 posti, la scelta è caduta su altre che secondo la Federazione avevano più probabilità di conquistare una medaglia". Delusioni cocenti, difficili da mandare giù. "È qualcosa che mi porterò dietro per quanto campo, è l'unico rimpianto che ho".

IL DRAMMA - E dire che le hanno strappato l'innocenza alla vigilia del primo giorno di scuola. Anno 1979: "Avevo tosse, tonsille gonfie, febbre alta. Ogni due settimane mi facevano un'iniezione intramuscolare di vicilina. Da un anno. Il sesto senso aveva convinto mia madre a interrompere la cura ma siccome ero sempre malata aveva telefonato al pediatra". Altre iniezioni. "Ero a casa". Tolto l'ago la bambina si lamentava, piangeva, si accasciava. La madre le diceva dai, smettila, alzati .

"Mi aveva messo in piedi ed ero caduta come un sacco. Ero divisa in due, metà del corpo non la sentivo, ero coperta di chiazze viola, non muovevo niente, vescica e sfintere non funzionavano più". Di corsa alla clinica Macciotta. "Nessuno ci capiva niente. Era un'allergia farmacologica ma in sei mesi di analisi non erano venuti a capo di niente". L'avevano trasferita al Gaslini di Genova. "A mia madre avevano detto che non c'era nessun margine di miglioramento". Invece il quadricipite della gamba destra aveva avuto una reazione e allora era iniziata la riabilitazione: una tortura.

LE BARRIERE - "Dopo sette mesi sono tornata a Cagliari, facevo quattro ore di fisioterapia al giorno". Ha perso un anno di scuola. "Frequentavo la San Vincenzo, mi portavano in braccio sulle scale: le barriere architettoniche che avevano promesso di abbattere sono sempre lì. In classe avevo una sedia comune con quattro rotelle". Non immaginava il suo futuro ma, soprattutto, non capiva.

"Il mio cervello dava gli input eppure le gambe non si muovevano". Due anni dopo è arrivata la diagnosi definitiva, nel frattempo aveva recuperato funzioni importanti. "Dai 12 ai 17 anni ho subito otto interventi chirurgici: anca, ginocchio, tendine". L'hanno rimessa in piedi con le stampelle. "Ma ero sempre in terra, avevo un grado di indipendenza pari a uno". E allora ha optato per la carrozzina.

IN PISTA - Ha scoperto lo sport tardi, a 18 anni: "Ero a teatro, ho conosciuto un ragazzo della Saspo. Avevo appena preso la patente e sono andata in via della Pineta nella sede della società". Le piaceva il nuoto ma all'epoca il settore non era molto sviluppato, l'atletica invece sì. "Era il 1993, mi allenavo al Sant'Elia e al Coni".

All'inizio faceva corsa su brevi distanze poi anche la maratona. "A parte vincere mi piaceva proprio correre. Sai quando ti metti la scarpa giusta? In pista trovavo benessere e libertà". Si allenava con Carmelo Addaris e Sandrino Porru: pista, strada e palestra due ore al giorno, sei giorni su sette. "La prima donna, per molto tempo l'unica. Seguivo i maschi e sono diventata forte".

LA DELUSIONE - È stato difficile metabolizzare l'esclusione dalle Paralimpiadi del 2000. "Ho smesso". E si è concentrata sul lavoro, impiegata amministrativa alla Lega coop. "Ho studiato al Tecnico commerciale Leonardo, dopo un anno in Giurisprudenza e un solo esame ho finito la carriera universitaria". Ma il richiamo della pista era troppo forte.

"La passione ti scorre nelle vene e poi ero abituata a fare sport". Nel 2005 è tornata, ha girato il mondo, vinto altre medaglie, conquistato podi importanti. "Ero spesata di tutto e avevo un compenso minimo per le medaglie, nulla di più. Mi mettevo in ferie dal lavoro, i miei colleghi mi hanno sempre assecondato". Ha fatto pure la maratona di New York, nel 2008: "Una delle trasferte più belle. Negli Stati Uniti è tutto accessibile, sono anni avanti a noi. Lungo il percorso il pubblico canta e balla, ti incitano, ti sollecitano e se pensi di fermarti perchè non ce la fai più continui anche per loro". Voleva andare a Pechino 2008, ma anche quella volta solo per calcolo l'hanno esclusa. Allora ha detto basta.

IL NUOTO - "Mi tengo in forma nuotando in mare". Nel frattempo è stata eletta presidentessa del Comitato paralimpico. "È impegnativo, ho dovuto prendere sei mesi di aspettativa dal lavoro". Anima e cuore, sempre e ovunque.

"Lo sport dà un valore aggiunto: io ero una bambina super vivace e mi sono trovata a dover reimpostare la mia vita ma in pista ho ripreso a fare quello che ero stata costretta a interrompere. Ero finalmente libera. E correvo. Con le braccia ma correvo. Ho girato il mondo, mi sono messa in gioco, ho superato le difficoltà con passione, determinazione e tenacia. Tutto questo aumenta l'autostima. Fisicamente si sta meglio, sei più agile, forte, dinamica, e psicologicamente stai bene. Ma questo non vale solo per i disabili".

Non c'è neppure bisogno di chiederglielo: basta guardare come brillano gli occhi e come splende il sorriso. La sua è felicità vera. E pure contagiosa.

Maria Francesca Chiappe
© Riproduzione riservata