Come si costruisce un italiano? Si parla così tanto di nazionalismo di questi tempi. Ma cosa significa essere italiani? Quali sono in effetti le vere differenze fra noi e (senza dover andare troppo lontano e considerare enormi differenze culturali ed economiche) i nostri cugini europei?

In questi giorni di vacanza, fra crema solare e cenoni in famiglia, sono un po' restia dal prendere questo tema troppo seriamente. Ma da sotto l'ombrellone sto già iniziando lo studio in materia. Perché in effetti un piccolo italiano lo sto costruendo proprio ora. Ha quasi 3 anni, 96 centimetri per 14 chili. Londinese di nascita, papà inglese, mamma italiana. Un quarto sardo per l'esattezza, che si fa notare negli occhietti vispi e scuri.

Lo osservo mentre gioca in spiaggia con i nuovi amichetti, loro sì italiani e sardi al 100%. Stanno facendo i primi "tuffi dagli scogli", un sasso di 20 centimetri sul bagnasciuga da cui si lanciano con determinazione. I bambini non mentono. Si rendono conto che lui non è veramente italiano? Notano la differenza senza capirne il significato? E come stanno crescendo diversamente loro in Italia da lui a Londra?

A occhio si mimetizza bene ma i guai iniziano quando apre bocca. "Ma cosa dici?" gli rispondono al suo "What's your name?". Ok, ovvia la prima differenza. La lingua. Non solo per farsi capire, ma per comprendere la cultura. Ogni lingua ha parole intraducibili proprio perché sono specifiche di quella nazione. Ad esempio "Ferragosto", che non esiste in inglese perché non esiste la festa e neppure il concetto di un periodo di vacanza nazionale estivo.

Non esiste neanche la parola "merenda" perché i bambini inglesi cenano prima dei genitori, verso le 6, e non c'è bisogno di uno snack pomeridiano che li porti avanti fino alle 8. Non c'è la cultura della famiglia che mangia insieme quotidianamente. Se un bambino fa merenda a Ferragosto, non sta solo parlando italiano, ma sta vivendo da italiano.

Ascolto una mamma un paio di ombrelloni dietro di me che canta al suo piccolo: "Baby Shark, na na na na na…". La globalizzazione in una filastrocca, cantata in tutto il mondo. Ma solo i bambini italiani si chiedono "E il coccodrillo come fa?". Grazie a Marianna, ragazza in gambissima che mi aiuta come babysitter nel periodo estivo che gliela ha cantata, ora anche il mezzo inglesino si chiede che suono faccia il coccodrillo (ma poi siamo sicuri che nessuno sappia come fa il coccodrillo? E in Africa o Australia non hanno un loro BauBau nelle filastrocche?).

Intanto i bambini in spiaggia continuano a giocare. Sono venuti con la loro famiglia, per godersi il mare e stare tutti insieme. Concetto che spesso non afferrano i nord europei che in spiaggia devono assolutamente fare qualcosa. C'è chi inizia competizioni di racchettoni, e chi si dedica alla lettura. Non con qualche rivista leggera ma con la versione integrale del Teatro Completo di Shakespeare. "I can't just sit there doing nothing!". "Non posso stare seduto a far niente!".

Inutile cercare di spiegare che in spiaggia parliamo, osserviamo, ci godiamo l'acqua cristallina e il sole sulla pelle. Mangiando tutti insieme sotto l'ombrellone, chili di insalata di riso e poi frutta che si ammacca subito. Lo stesso rituale poi continua nelle piazze dell'estate sarda, luoghi di raduno per grandi e piccoli, da tutte le classi sociali. I bambini che vanno in bicicletta sotto lo sguardo degli anziani, e partite di pallone improvvisate ed eterne.

Forse ha ragione il sindaco di Olbia che le ha vietate a San Pantaleo: un pallone in faccia fa male. Ma forse vale la pena rischiare un pallone in faccia per godersi una società dove si sta tutti insieme. Gli anziani ringiovaniscono circondati dai bambini e i bimbi imparano dalle sgridate dei "grandi" su come giocare in maniera rispettosa.

Forse è proprio quello che ci contraddistingue come popolo. Capiamo che lo stare insieme nel dolce far niente in effetti vuol dire fare tutto ciò che è veramente importante.

Spero che dopo l'estate sarà quella la lezione che si ricorderà mio figlio una volta tornato nella fredda Londra. Lezione che lo renderà veramente italiano, e un quarto sardo.

Barbara Serra

Giornalista e conduttrice di Al Jazeera a Londra
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