Un reportage dai sotterranei dell'inconscio. Per portare alla luce sogni, incubi, paure, desideri, proiettati come fotogrammi di un film su pannelli di carta satinata opaca. Sembrano usciti dalle nebbie del sogno: architetture, paesaggi, angoli urbani e personaggi immortalati dagli scatti della fotografa cagliaritana Francesca Randi. Il suo "studio d'artista estemporaneo" lo ha allestito nelle sale del Ghetto di Cagliari, all'interno del progetto - residenza artistica "A place of Art", curato dagli storici dell'arte Efisio Carbone e Simona Campus per il Consorzio Camù. Il centro culturale di Castello ha ospitato dal 27 giugno al 26 luglio gli atelier e le opere di Lea Gramsdorff, Simone Dulcis e Francesca Randi. Poi, dal 7 agosto al 6 di settembre il Ghetto ha accolto il secondo tris di artisti: Ilaria Gorgoni e Davide Volponi, affiancati ancora da Randi. Le foto del suo progetto "Black Summer" restano in esposizione anche nella terza tranche, dal 17 settembre al 17 ottobre, assieme alle opere di Paolo Carta, Giulia Casula e Skan.

"A place of Art" rientra nell'ambito della programmazione dell'assessorato alla Cultura del Comune di Cagliari. Gli artisti coinvolti hanno avuto modo di dialogare e confrontarsi e svelare al pubblico le fasi del processo creativo. I visitatori protagonisti C'è un fil rouge che attraversa i due progetti "Black Summer" e "I senza Nome" che hanno abitato gli spazi del Ghetto. Nel primo Francesca Randi dà vita ai suoi personaggi. Una galleria di ritratti, dark men e dark ladies "di vintage vestiti" e i volti di animali. Uomini e donne fotografati davanti alla semi oscurità di una cripta, fondale ideale per il racconto per immagini di una "Spoon river" cagliaritana. In un meccanismo di identità ondeggianti, confuse dietro maschere fashion.

Francesca Randi gioca a coinvolgere i visitatori per invitarli a far parte integrante del percorso espositivo. In un meccanismo di specchi, doppi, riflessi tra arte e vita, luci e ombre, artista e pubblico.

I senza Nome Presenze inquietanti, conturbanti, affascinanti, affermano il loro esistere, affiorano alle prime luci del giorno, quando tutto è confuso, indefinito, o nell'oscurità, dove a parlare sono i silenzi e le luci al neon di qualche insegna ancora accesa. In una dimensione insieme onirica, surreale, ironica, anche erotica.

Sono "I Senza Nome", dichiarato omaggio al noir francese e americano degli anni '60 e '70. L'artista prende ispirazione dal celebre film cult di Jean-Pierre Melville del 1970. Randi ha sminuzzato, sbriciolato la pellicola per offrirne, attraverso una antologia di frame, la sua originale rilettura. Il visitatore ha a disposizione un ventaglio di spunti per ricomporre i pezzi e creare il proprio film, la propria storia, il proprio finale. Memorie In un angolo dell'atelier ricavato dagli spazi del Ghetto affiorano poi i ricordi d'infanzia. O forse l'artista richiama i fantasmi di un passato o, ancora, un bagaglio di memorie, illusioni, nostalgie, sogni infranti e un disagio sottile, intangibile, "senza nome". Attraversa gli spazi, nobilitato dal segno artistico. E un rimando all'infanzia sono le maschere disneyane de I Senza Nome. Francesca Randi ha scelto pezzi originali vintage anni '60 e '70, scovati tra le "rimanenze" di un negozio storico di New York. Maschere anch'esse, beffarde e conturbanti, ironiche, spassose e malinconiche. L'artista vi proietta parte del suo mondo interiore, che sa di antico e moderno insieme. E dove l'arte prova a farsi strada per conquistare spazi, luce, in un mondo di solitudini e identità fluttuanti, sospese, confuse, dimenticate, nei meandri dei chiaroscuri.

Scrive la storica dell'arte Sonia Borsato.

"Francesca Randi fa sfilare i personaggi della sua personalissima filmografia emotiva. L'elegante solitudine che è ormai una costante del cinema metropolitano trova in questi scatti una soluzione, il radicamento nelle arterie cittadine che di notte palpitano di vite segrete, insospettabili, singoli protagonisti, quasi sempre perfettamente centrati nell'architettura di un sogno, percorrono una città inespressa, irrisolta, segreta. Donne, uomini, bambini dominano una periferia che oscilla tra sogno e realtà, in quella porzione in tecnicolor che palpita prima dell'alba, prima che gli occhi si riabituino al ritmo del produttivo e del socialmente accettabile. Una piccola rassegna di potenziamento identitario. Non un grande percorso, alla fine, ma solo un mettersi in gioco, un voler uscire dal solco tracciato e ascoltare pulsioni e battiti che premono all'oggi. Perchè, come avrebbe detto Susan Sontag, fare fotografia significa partecipare della vulnerabilità e della mutabilità. Tutto il resto è vanità".

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