La storia della viticoltura nell'Isola affonda le sue radici in epoche antiche. Probabilmente molto prima della civiltà nuragica. Al momento le testimonianza e i documenti del passato ci riportano indietro a un periodo tra il 15esimo e 14esimo secolo avanti Cristo. Le analisi chimiche effettuate sui residui organici contenuti all'interno dei vasi trovati nel Nuraghe Arrubia, a Orroli, fanno ipotizzare che la Sardegna in piena età nuragica conoscesse già le tecniche di trasformazione e produzione del vino.

Ma molte domande restano ancora senza risposte. Per esempio, come era il vino arcaico, quali erano i vitigni usati? E, soprattutto, conosciamo i luoghi di produzione, insomma dove sono le "cantine" preistoriche in cui nell'Isola avveniva la fermentazione del mosto? Un importante contributo è arrivato ai primi del mese da un interessante studio effettuato a Villanovaforru nel Nuraghe Genna Maria. Un punto di partenza fondamentale per dar vita a nuove conoscenze su date e luoghi di trasformazione. «Che ci fossero produzioni di vino in età nuragica ce lo dicono le analisi fatte a Orroli», conferma l'archeologo e scrittore Mauro Perra. «Ma mai, prima di Villanovaforru, era stato scoperto un atelier nel quale si facessero lavorazioni enologiche. Il villaggio di Genna Maria è legato alla fase terminale della civiltà nuragica, fine secondo millennio e inizi del primo». Cosa ha di particolare questo sito che lo rende diverso da altri villaggi preistorici? Mille anni prima di Cristo un gigantesco incendio distrusse gran parte dell'abitato costringendo la popolazione a fuggire. Quel rogo e i conseguenti crolli di importanti ambienti hanno conservato in modo pressoché fedele l'interno di alcune costruzioni, restituendo ai gironi nostri una situazione cristallizzata di quel momento. Nella cosiddetta "capanna gamma" sono stati ritrovati dei manufatti in pietra e delle ampie vasche di raccolta utilizzati per la produzione di vino, come hanno confermato le analisi chimiche. Mancava fino a oggi la prova oggettiva della presenza nell'Isola di "cantine", Villanovaforru l'ha fornita. Assoluta novità archeologica, quella emersa dal villaggio nuragico di Genna Maria, che permette anche di asserire con documenti ufficiali che al momento le "cantine" più antiche dove veniva prodotto vino, nel mondo occidentale, si trovano appunto nell'Isola. E molto probabilmente, parliamo di preistorici vini bianchi, al massimo rosati. La scoperta scaturita da un interessante lavoro interdisciplinare che ha visto impegnati lo studioso e responsabile del comparto vitivinicolo Agris, Gianni Lovicu; l'archeologo Perra e il chimico Donatella Delpiano, è stata pubblicata nella rivista scientifica internazionale Vitis.

La capanna e i laccus «Il fatto che sia stato possibile trovare un ambiente così ben conservato - riprende Perra - è dovuto a eventi drammatici, ed è stato fondamentale per l'esito di questo studio». Al centro del lavoro ci sono i laccus, ovvero quei bacili in marna, molto comuni nell'Isola e utilizzati in alcuni casi sino alla seconda metà del 1800. I laccus scoperti alla fine degli anni '90 nel villaggio di Villanovaforru, raccontano qualcosa di sorprendente. «Un'ampia concentrazione di queste vasche si trova nel Barigadu, nel Montiferru e nella Planargia», spiega Gianni Lovicu. «Ma la fortuna, se così possiamo dire, dei manufatti di Genna Maria è legata al crollo della volta della cosiddetta "capanna gamma", in seguito al gigantesco rogo avvenuto mille anni prima di Cristo. Incendio che ha cristallizzato quegli ambienti, lasciandoceli intatti sino ai giorni nostri». Non solo. «La presenza di acido tartarico, inoltre, ci ha permesso di avere la conferma oggettiva di ciò che finora si era potuto solo ipotizzare. Davanti a noi c'era un chiaro stabilimento preistorico di vino».

Lo studio Nel documento di sintesi elaborato dall'équipe di studio si legge: «Il manufatto in pietra della capanna gamma del Nuraghe Genna Maria è parte di un composto ancora inedito e risalente al periodo nuragico. La presenza di acido tartarico insieme alla valutazione complessiva degli aspetti archeologici, suggerisce di considerare positivamente il manufatto in pietra come un "laccus" (termine latino che definisce i palmenti) per la pigiatura dell'uva. La pendenza interna del pavimento del laccus permetteva l'estrazione del succo senza contatto con le bucce dell'uva. È documentata la presenza in Sardegna di un gran numero di "laccus" come quello del nuraghe Genna Maria studiato in questo articolo. Questo studio contribuisce alla loro datazione e conferma l'esistenza di un'industria enologica nel isola nel periodo arcaico (IX-X secolo avanti Cristo)». Lo studio rileva anche che «probabilmente, le tracce della vite e del vino sono molto più antiche, in Sardegna, della civiltà nuragica. Ma per avere conferma di questo è sicuramente necessario disporre di un approccio multidisciplinare sia in occasione di nuovi scavi che nel riesame di reperti già catalogati e pubblicati».

La chimica A dare una marcia in più alle ricerche fatte a Villanovaforru sono stati gli esiti delle analisi sui reperti. Il chimico Donatella Delpiano, che ha guidato questa parte del lavoro, non nasconde come «il successo di tutto lo studio sia segnato dall'interdisciplinarietà, il risultato chimico è inoppugnabile. Ci ha consentito di dare una risposta inequivocabile. La scoperta di acido tartarico riscontrato nei reperti però poteva non essere sufficiente a dirci che lì ci fosse stata presenza di vino. Il contesto archeologico è stato fondamentale». Lovicu fa notare come in questi «laccus veniva ammassata l'uva e il succo era convogliato nelle vasche sottostanti per la successiva fermentazione alcolica. Che avveniva in assenza di bucce. Si otteneva perciò un vino bianco o al massimo un rosato». Dati e analisi sono stati testati e confermati dai laboratori della Fondazione Edmund Mach, il centro di studi agrari di San Michele all'Adige. Ma questo è solo l'inizio di una nuova avvincente storia.

Le produzioni Nello studio inoltre si cerca di definire anche le quantità probabili di produzione. Risposte complesse e strettamente legate a un dato al momento solo ipotizzabile: conoscere esattamente i vitigni utilizzati. «Guardando il vasto panorama varietale della viticoltura della Sardegna, caratterizzata da vitigni "unicum" che presentano tracce di coltivazione vecchie di secoli (Lovicu et al., 2017) possiamo utilizzare come indici di riferimento quelli di varietà (comunque molto antiche) tuttora coltivate in zona», spiegano gli studiosi. «Possiamo considerare a tal fine due vitigni molto diversi tra loro: il Malvasia di Sardegna e il Nuragus. Il primo è caratterizzato da un grappolo di grandi dimensioni molto spargolo, quindi con pochi acini e raspo molto ampio. Un metro cubo di questo vitigno può contenere mediamente 350-400 kg di uva. In maniera diversa si comporta il Nuragus, vitigno caratterizzato da grappolo medio, molto serrato e con molti acini. Un metro cubo di Nuragus può contenere mediamente circa 500 kg di uva». Da qui la conclusione: «Considerando che il volume utile del palmento è di circa mezzo metro cubo ne consegue che potevano essere lavorati circa 180-250 chili di uva per volta, per ottenere circa 90-125 litri di vino, considerando una resa prudenziale, rispetto all'uva di partenza, del 50 per cento». Dati e nuove conoscenze che certamente segnano un grande passo in avanti nello studio della storia vitivinicola sarda. Ma anche un fondamentale nuovo punto di partenza.
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