Prima i cinesi. Poi i filippini, aggrediti perché scambiati per cinesi. Poi i media, accusati di allarmismo nei giorni in cui Milano diceva di non volersi fermare e lo spritz in compagnia sembrava una reazione spiritosa. Poi i contagiati: colpa loro. Quindi i lombardi: “Tutti leghisti, ben gli sta”. Poi i runner, i vicini avvistati in giro, quelli senza mascherina. Tutti presunti responsabili su cui scaricare rabbia e frustrazione.

In nessuna circostanza più che durante un’epidemia, ha spiegato a suo tempo in maniera esemplare lo studioso francese René Girard (1923-2015), si rivela il meccanismo del capro espiatorio.

Davanti a una crisi, gli esseri umani hanno bisogno di qualcuno cui dare la colpa. E l’epidemia è la crisi per eccellenza: nell’antichità, ma in tempi recenti gli antropologi lo hanno osservato anche in società cosiddette “primitive”, si registravano esplosioni di violenza collettive, un tutti contro uno che aveva lo scopo di scaricare le tensioni sociali quando queste arrivavano a essere insostenibili. Da questo fenomeno, secondo Girard, ha preso origine quel fenomeno centrale e misterioso, diffuso a tutte le latitudini e in tutti i contesti culturali, che è il sacrificio. Ma anche il mito, che secondo lo studioso nasce dalla divinizzazione della vittima giusta, quella il cui linciaggio coincideva (per chi ci credeva: causava) la fine dell’epidemia e dunque il ritorno della salute, della pace, della serenità, della fertilità nei campi, della ricchezza.

Nel suo lavoro capitale che è “La violenza e il sacro”, pubblicato nel 1972 e in Italia edito da Adelphi, Girard ha necessità di fare un po’ di fatica per spiegare ai lettori, occidentali, cittadini della società del benessere, cosa succedesse nell’antichità durante l’epidemia per eccellenza: la pestilenza. Tutte cose che noi, tutti noi che stiamo vivendo in diretta un evento per una volta davvero epocale, abbiamo ora sotto gli occhi: tensioni interpersonali (il nostro prossimo può essere contagioso), panico, decadenza delle colture e del sistema economico nel suo complesso, angoscia per il futuro. Oggi, per lettori che hanno visto ciò che stiamo vedendo in queste settimane di Covid-19, “La violenza e il sacro” avrebbe necessità di molte meno pagine per spiegarsi.

René Girard, con le sue idee, non ebbe vita facile. In Francia il suo pensiero (partito dalla critica letteraria ma presto approdato all’antropologia) non trovava una collocazione, e solo negli Stati Uniti (dove ottenne una cattedra alla Stanford University) se ne è colta la novità e la capacità di leggere e spiegare alcuni dei meccanismi fondamentali dell’agire umano. Oggi è di grandissima attualità. Ma lo era anche prima del contagio. Perché? Non soltanto perché le sue teorie (esplicate in una serie di libri che, come in un sistema di cerchi concentrici, non fanno che espandere o concentrare il raggio di uno stesso interrogativo di fondo, il sacrificio: da “Il capro espiatorio” a “Delle cose nascoste dalla fondazione del mondo”) hanno gradualmente occupato un posto di rilievo nel panorama culturale di fine Novecento. Non soltanto perché uno dei personaggi letterari più riusciti e celebri degli ultimi decenni, il signor Malaussène di Daniel Pennac, è direttamente ispirato alle riflessioni di Girard sul capro espiatorio. A rilanciare potentemente la centralità del pensatore francese è stato, né più né meno, l’inarrestabile successo (“virale”) di Facebook. Uno dei primi a credere nelle potenzialità di quello che sarebbe diventato il più diffuso social network del mondo è stato il magnate della Silicon Valley Peter Thiel, l’inventore di PayPal (rivoluzionario servizio di pagamento digitale e di trasferimento di denaro tramite Internet). Sono stati i soldi investiti da questo geniale imprenditore tedesco (che si è formato alla Stanford University e, a 51 anni, è stato ed è tante cose: campione di scacchi, teorico, ciberpensatore) a trasformare la neonata e incerta creatura di Mark Zuckerberg nel gigante che vediamo oggi. Un investimento indovinato e largamente ripagato. Quando gli hanno chiesto cosa lo avesse spinto a scommettere proprio su Facebook, Thiel ha risposto utilizzando una categoria coniata dal suo maestro René Girard: quella del desiderio mimetico. Una scoperta semplice e al tempo stesso geniale: l’essere umano non desidera una cosa per il suo valore intrinseco, la desidera per imitazione (mimesi), cioè perché la desidera qualcun altro, colui che ha scelto come proprio modello. Nella neonata Facebook, dove ognuno avrebbe avuto la possibilità di mostrare la propria esistenza e, in definitiva, esibire i propri desideri, Thiel intravide un ambiente virtuale ideale per il contagio mimetico. Una sorta di irresistibile epidemia di desideri, contagiosi (e patogeni) come virus.
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