Per secoli, dal Seicento e fino alla Seconda guerra mondiale, molti bambini delle valli più povere dell’Alto Adige hanno conosciuto un destino terribile. Quelle famiglie che non potevano mantenerli, infatti, accettavano di inviarli a nord, nella regione della Svevia, in Germania, perché fossero “venduti” nei mercati.

Ad acquistarli erano contadini che avevano bisogno di braccia per lavorare nei campi o di aiuto domestico in casa. Per i piccoli era la possibilità di sopravvivere assicurandosi un tetto sotto cui vivere e un pasto al giorno ma nello stesso tempo per molti la vita si trasformava in una vera a propria schiavitù, fatta di lavoro durissimo, violenze, umiliazioni.

Nel romanzo I bambini di Svevia (Garzanti, 2020, Euro 18,60, pp. 400. Anche Ebook) Romina Casagrande racconta la vicenda di Edna, una di questi piccoli sfortunati. Anche lei ha percorso i sentieri verso nord nella speranza di sfuggire alla povertà terribile delle sue valli e di conquistare un futuro migliore. Ha trovato però solo lavoro durissimo, un tozzo di pane. A illuminare la sua vita è stata l’amicizia con Jacob, anche lui uno dei bambini di Svevia. Diventata adulta, Edna vuole ritrovare l’antico amico e si mette in viaggio alla sua ricerca. Ma trovare Jacob significa addentrarsi in un passato cupo, fatto di minacce oscure. Un passato che forse è meglio dimenticare.

Intenso e spiazzante, il romanzo di Romina Casagrande ha anche il merito di raccontare una storia dimenticata, ancora in parte rimossa come ci spiega proprio l’autrice del libro:

“L’Alto Adige è una regione particolare, il passato ha lasciato molte feriti che faticano a rimarginarsi e rimangono ancora zone buie sulla sua storia, anche perché spesso si confrontano due storiografie in parte contrapposte, una italiana e l’altra tedesca. La ferita dei bambini di Svevia non si è ancora rimarginata perché fa ancora scandalo, soprattutto perché dietro le vicende di questi bambini vi sono state violenze, stupri. Insomma, si è messo in atto per lungo tempo un processo di rimozione di uno dei momenti bui della storia della regione. Oggi c’è maggiore desiderio di raccontare quel passato, anche se terribile. Io ho avuto la possibilità di incontrare persone che hanno avuto antenati tra i bambini di Svevia e ho trovato testimonianze della loro vicenda nel museo della Val Venosta, la valle da cui partivano la maggior parte di questi sfortunati.

Sfortunati che però spesso non avevano altra possibilità di sopravvivere tanta era la povertà…

“Esatto. La cosa tragica era che per molte famiglie non esisteva altra soluzione che ‘vendere’ i figli. Dopo il 1918 le autorità decisero di mettere fine a questa pratica di vendita dei minori ma le famiglie delle zone più povere continuarono a mandare i loro figlie in Svevia, perché non potevano mantenerli. Lo chiedevano ai preti dei loro paesi che avevano il compito di accompagnare i piccoli e ancora negli anni trenta del Novecento vi erano giornali della Germania che pubblicavano annunci con la richiesta di manodopera minorile. Così come si pubblicavano annunci dell’arrivo di bambini e ragazzi pronti a lavorare”.

Tornando al romanzo, lei mette all’inizio del libro una frase di Lao Tze: “essere grandi significa avanzare, avanzare significa andare lontano, andare lontano significa ritornare”. È quello che fa Edna, la protagonista del libro. Diventata grande torna suoi passi. Perché decide a un certo punto di tornare alla drammatica storia della sua infanzia?

“Edna ha sempre vissuto la sua vita andando avanti. Si è posta degli obiettivi e li ha perseguiti in maniera lineare. Ad un certo punto si è però resa conto che non è possibile andare avanti senza fare i conti con il passato. Bisogna, insomma, chiudere un ciclo per poterne iniziare veramente uno nuovo. Edna ha un profondo senso di colpa nei confronti di una persona che non vede da tanto tempo e deve tornare indietro per chiudere quella fase della propria vita e trovare nuovo slancio, avere una nuova partenza".

È sempre necessario chiudere i conti con il passato? Non è meglio lasciare le cose come stanno a volte?

“Penso sia sempre importante provare a fare i conti con il passato. Per Edna si tratta di ritrovare il suo passato personale e comprenderlo, riconoscerlo. Rimuovere non aiuta mai ad andare avanti”.

Per scrivere il romanzo lei ha letto testimonianze dirette lasciate dai bambini di Svevia e incontrato alcuni dei loro discendenti. Come raccontavano la loro esperienza i protagonisti?

“Raccontavano la loro vicenda con molto pudore e poi emergeva sempre la voglia di raccontare il lato positivo della vicenda. Nei diari che ho letto emerge spesso la meraviglia che vivevano giungendo in quelle fattorie tedesche ben diverse dal mondo piccolo e povero da cui provenivano. Ma anche la difficoltà di trovarsi in un mondo estraneo, dove molte cose erano sconosciute. Anche la lingua era un problema perché spesso questi bambini parlavano il dialetto tedesco delle loro valli e non comprendevano gli ordini che venivano loro dati. E scattavano le punizioni".

Eppure questi bambini sapevano cogliere il buono pur in una avventura terribile…

“Quando si era tanto poveri come questi piccoli, anche avere la pancia piena era un lusso…"

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