Violenza domestica: le leggi ci sono ma in almeno un caso non c’è stata attenzione nell’applicare le misure di protezione previste. La Corte europea dei diritti dell’uomo dà le pagelle all’Italia con la sentenza pubblicata lo scorso 7 aprile. In sostanza: la risposta istituzionale al fenomeno è inadeguata. Ecco perché l’Italia è stata condannata, ed è la seconda volta: ha violato l’articolo 2 della convenzione. In parole semplici: non sono state adottate le misure operative adeguate a prevenire la violazione del diritto alla vita di una donna e del figlio minorenne, ucciso dal padre al termine dell’ennesima aggressione in famiglia.

Le argomentazioni della Corte sono particolarmente rigorose: da un lato valutano non diffusamente discriminatorio l’operato delle autorità italiane nei confronti delle donne, giudicando di conseguenza infondato il ricorso basato sull’articolo 14 della convenzione. Per il resto invece la sentenza non fa sconti.

Il caso cui fa riferimento la Corte riguarda una donna che viveva in Toscana con il compagno e il loro figlio. Dopo cinque anni di convivenza la donna aveva subito la prima aggressione e aveva  presentato una denuncia. Mentre le forze dell’ordine mettevano a verbale il racconto della violenza, il marito aveva fatto irruzione negli uffici gridando e minacciando la moglie, quindi aveva continuato a dare in escandescenze per strada. A quel punto i carabinieri lo avevano portato in ospedale dove gli psichiatri lo avevano giudicato non pericoloso. Però: quando aveva saputo che la donna era andata a vivere insieme al figlio dalla madre di lei, e non ne voleva sapere di rientrare nella loro abitazione, aveva preso a calci l’auto della donna. La quale aveva presentato una nuova denuncia. Gli inquirenti l’avevano informata della possibilità di andare a vivere in una casa per donne vittime di violenza domestica mentre all’uomo era stato notificato un divieto di avvicinamento a quella che era ormai diventata la ex.

Durante il procedimento penale per maltrattamenti all’uomo non era stata imposta alcuna misura precauzionale: il pubblico ministero non l’aveva chiesta al giudice nonostante le sollecitazioni dei carabinieri.

L’anno successivo la donna aveva ritirato la denuncia perché l’ex si stava curando e sembrava sensibilmente migliorato. Si erano addirittura rimessi insieme ed era pure nato un secondo figlio. Poco dopo il parto la moglie si era recata in ospedale a causa di alcuni problemi medici e il marito, non avendola trovata a casa, era andato fuori di testa. La donna a quel punto si era rivolta alle forze dell’ordine senza però sporgere denuncia. Successivamente c’era stato un violento litigio per strada ed erano intervenuti i carabinieri. Ma non era ancora finita: qualche tempo dopo c’era stata una nuova aggressione fisica durante la quale lui l’aveva ferita al volto e al naso. Non solo: durante l’intervento dei carabinieri aveva tentato di rubare la pistola a un militare ed era stato bloccato per poi essere ricoverato in Psichiatria.

Una volta dimesso dall’ospedale si era trasferito dai genitori e la ex moglie aveva ritirato la denuncia.  I carabinieri avevano comunque parlato col magistrato della necessità di una misura cautelare per proteggere la donna i bambini.

Invece la ex era di nuovo tornata a vivere con il marito dal momento che il medico curante aveva raccomandato una riunione familiare per aiutare la terapia psichiatrica.

Per i medici non era pericoloso, andava soltanto seguito. Invece era successo l’irreparabile: durante una lite aveva accoltellato a morte un figlio e ferito l’altro e la moglie. Per questi reati l’uomo è stato condannato a 20 anni, poiché gli era stato riconosciuto un vizio parziale di mente.

Dopo quel verdetto in sede penale la moglie si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo che per tutti quegli anni non sono state adottate le misure necessarie alla protezione sua e dei figli. Ebbene, i giudici di Strasburgo le hanno dato ragione: le autorità italiane non hanno adottato la dovuta diligenza, avendo omesso di applicare qualsivoglia misura di protezione per prevenire l’accaduto, come ad esempio il coinvolgimento dei servizi sociali o degli psicologi o il collocamento della donna e dei bambini in un centro anti violenza. Secondo la Corte queste misure devono essere adottate, in conformità con la legge italiana, indipendentemente dalla presentazione di denunce e a prescindere dal fatto che le stesse siano state rifiutate in seguito a una diversa percezione del rischio da parte della vittima.

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