Ottomila malati, quattrocento morti. «Ma sono cifre approssimate purtroppo per difetto: il Ministero della Difesa non riconosce che tanti soldati e tanti civili si sono ammalati di tumore per colpa dell’esposizione all’uranio impoverito e alle polveri della guerra». Vincenzo Riccio, 50 anni, è il presidente dell’Associazione nazionale delle vittime dell’uranio impoverito, da anni in prima fila per ottenere giustizia, cioè risarcimenti in favore dei familiari di chi ha perso la vita o non ha più potuto lavorare per colpa del cancro.

Non esiste neppure una statistica ufficiale?

«Siamo di fronte a una situazione davvero difficile».

Perché?

«Perchè lo Stato, il Ministero della Difesa, nega l’esistenza del problema, dei malati, dei morti, di aver mandato allo sbaraglio all’Estero o nei poligoni sardi tanti giovani senza le adeguate protezioni dalle polveri cancerogene frutto di esplosioni ad altissime temperature».

Qual è la vostra battaglia?

«Ottenere giustizia».

Cioè soldi?

«Guardi, i soldi non ripagheranno mai una madre, una moglie o fratello della morte di un loro caro. Ma lo Stato deve assumersi le proprie responsabilità. In un modo o nell’altro».

Bonifica nel Kosovo (foto AP)
Bonifica nel Kosovo (foto AP)
Bonifica nel Kosovo (foto AP)

C’è un modo?

«Eccome. Se da una parte la Difesa nega, nega l’evidenza, me lo consenta, dall’altra i tribunali di tutta Italia condannano il Ministero a risarcire le famiglie dei militari malati e morti».

Da quando?

«Da oltre dieci anni: ci sono 250 sentenze di condanna davanti a tribunali civili, tribunali amministrativi regionali e Corte dei conti per il riconoscimento della causa di servizio, delle pensioni di invalidità, dell’equo indennizzo».

E lo Stato paga?

«Tenta di non farlo, resiste in ogni grado di giudizio, ma in diversi casi i familiari, le vedove e i figli dei militari morti, hanno già ottenuto risarcimento anche milionari. E le prossime sentenze andranno sulla stessa strada, la giurisprudenza è chiara e univoca e va avanti per suo conto».

Su che base?

«La prima sentenza di questo tipo è stata pronunciata dal tribunale civile di Firenze: gli avvocati dei familiari di un soldato morto dopo essersi ammalato nel Kosovo hanno dimostrato che la Nato avvisò i vertici della Difesa italiana prima della partenza del contingente: “Nei Balcani utilizzeremo armi all’uranio impoverito, sono molto pericolose per la salute, dovete dotare le forze armate di speciali equipaggiamenti di protezione”. L’invito restò lettera morta, da qui la strage, gli ottomila malati e i 400 morti».

E nei poligoni sardi?

«Stesso discorso: negli organi dei malati si trovano le stesse nanoparticelle cancerogene di chi è stato esposto alle polveri della guerra nelle missioni in Kosovo, Iraq, Afghanistan, Somalia».

Cosa chiede la vostra associazione?

«Il riconoscimento per legge del nesso di causalità tra esposizione a determinati fattori di rischio e l’insorgenza dei tumori. Tra l’altro fa rabbia che…».

Che cosa?

«C’è un decreto del presidente della Repubblica (il 90 del 2010) che riconosce tutto questo e parifica ai fini dei risarcimenti i soldati reduci dalle missioni in zone di guerra ai colleghi in divisa che hanno prestato servizio nei poligoni sardi e ai civili che abitano nei pressi di Quirra, Capo Frasca e Teulada».

Eppure?

«Eppure resta disatteso: come la proposta di legge dell’ex senatore olbiese Gian Piero Scanu, presidente della quarta commissione all’uranio impoverito capace di arrivare alle nostre stesse conclusioni».

Oggi che succede?

«Che per avere giustizia ci si deve rivolgere a un tribunale. I tempi si allungano a dismisura, ci sono poi le spese legali da affrontare. Un calvario. Un calvario dopo tanto dolore».

Fatti concreti?

«Nessuno. Solo parole e promesse da parte dei politici. Noi abbiamo incontrato nei giorni scorsi la commissione parlamentare alla Difesa, le nostre richieste sono state per l’ennesima volta inserite in un documento che però per adesso non ha portato a niente».

I familiari di alcuni soldati sardi hanno ottenuto risarcimenti.

«Qualcuno sì, altri sono in attesa della conclusione dell’ultimo grado di giudizio. Una vergogna, mi creda».

Lei combatte da anni questa battaglia.

«Sì, insieme ad altre associazioni come l’Osservatorio Militare, dobbiamo restare tutti uniti».

Anche lei è malato?

«Sì, lo stesso tumore di Marco Diana, il maresciallo dell’Esercito di Villamassargia morto qualche anno fa. Mi sono ammalato dopo una missione in Iraq, ero un elicotterista. Ma questa non è la mia battaglia deve essere una battaglia di tutti, per la verità e la giustizia».

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