«Ciao...Dove sei? Cosa fai? Puoi vedermi? Segui quel che faccio, e come lo faccio? Sbaglio qualcosa? Sai, non è che le cose siano sempre facili. Ci manchi, se fossi qui vorrei domandarti tante cose… A te come va? Me lo chiedo ogni giorno, ma non ho una risposta. Vorrei che mi parlassi, suggerissi, consigliassi. Avrei dovuto farti più domande, coinvolgerti. Prima. Ma, come sempre, si arriva tardi e ci si porta dentro il rimpianto di ciò che sarebbe dovuto essere e non è stato. Lo so: sei sempre stato presente, vicino, pronto. È che spesso – molto spesso – mi sono sentito inadeguato, incapace di esprimermi, di far capire quanto mi sia sentito protetto. Da te, da mamma. Dalla famiglia. Ora vado. Però per favore seguimi, consigliami. E fammelo capire. Non so come, ma ci conto. Ci spero. Grazie...torno presto. Ti voglio bene».

Il tempo perduto

Ognuno aggiunga l’interlocutore che ritiene: padre, madre, fidanzata, genitori, fratelli, sorelle, amici. Far sapere alle persone che si amano quel che si prova per loro è impresa tra le più complicate. Timidezza, senso di inadeguatezza, paura di non essere ricambiato spesso spingono a reprimere i propri sentimenti. Così il tempo passa, sicuri che prima o poi si troverà il modo, il tempo, l’occasione per rivelarsi. Solo che il prima non arriva e lascia spazio al poi. Che a un certo punto diventa mai. Svanisce la possibilità di abbracciare la persona amata, confrontarsi con lei, condividere momenti belli e brutti. Troppo tardi ci si rende conto del vuoto che provoca anche il solo non vederla in casa, non sentirne la presenza, la voce. L’irritazione per gli indumenti sistemati in un cassetto diverso dal solito, la luce lasciata accesa, la finestra lasciata aperta e i fogli che cadono dalla scrivania, la legna per il caminetto acquistata a un prezzo eccessivo. Le piccole battute. Banalità che, messe insieme, riempiono una vita. E che, mancando, lasciano crepe difficili da chiudere.

Il dolore e la soluzione

Il desiderio di farlo e la fantasia dell’Uomo però hanno limiti indefinibili, inesistenti, e un modo per fingere che si possa ancora comunicare con qualcuno andato via si trova. In Giappone si chiama “Kaze no Denwa”. Il telefono del vento. Una piccola cabina sistemata su una collina che guarda l’Oceano. Un’illusione, una carezza, qualcosa cui aggrapparsi per lenire il dolore provocato da un’assenza, da un lutto. Uno strumento finto, ma nella testa di ciascuno terribilmente reale, per parlare ancora, ogni volta che si vuole, con i propri cari volati via, per esprimere sentimenti che magari non si è riusciti a tirare fuori in precedenza, per protestare, contestare, raccontare, ricordare, sapere. Un’esperienza tanto magica quanto surreale.

Senza prefisso

La cabina si trova nella città costiera di Otsuchi. È bianca, ha i pannelli in vetro. All’interno ci sono un quaderno e un apparecchio nero collegato al nulla. L’idea è venuta nel 2010 da un uomo che aveva perso il cugino e deciso di costruire nel proprio giardino un sistema per continuare a chiamarlo e parlarci. Era facile: bastava comporre il numero (è un vecchio telefono con la rotella) e cominciare a chiacchierare. Il vento avrebbe fatto arrivare le parole sino a lui. Non ci sarebbe stata risposta, ma era importante mandare il messaggio. Appena un anno dopo, nel 2011, il terremoto e il conseguente tsunami che avevano causato quasi 20mila morti avevano spinto migliaia di persone che in quegli eventi avevano perso un familiare, un amico, un conoscente, ad andare sino a quella cabina per contattare gli affetti scomparsi. Per ridurre in qualche modo il dolore.

Lo tsunami in Giappone del 2011 (archivio)
Lo tsunami in Giappone del 2011 (archivio)
Lo tsunami in Giappone del 2011 (archivio)

In quel momento l’inventore, Itaru Sasaki, decise di aprire il suo spazio a tutti. Mese dopo mese il suo giardino è diventato meta di un pellegrinaggio gigantesco. Figli, genitori, amici, giovani, vecchi, donne, uomini. Chiunque portasse nel cuore il peso di un dolore acuto andava lì, componeva il numero desiderato e parlava, o ascoltava il rumore del vento e delle onde, alla ricerca di qualcosa che lenisse la sofferenza e gli desse conforto. Sperando magari che davvero qualcuno dall’altra parte lo ascoltasse.

L'onda provocata dal terremoto in Giappone nel marzo 2011 inonda le strade (archivio)
L'onda provocata dal terremoto in Giappone nel marzo 2011 inonda le strade (archivio)
L'onda provocata dal terremoto in Giappone nel marzo 2011 inonda le strade (archivio)

Migliaia di visitatori

Giusta o sbagliata, utile o no, l’invenzione in soli tre anni ha attirato 10mila visitatori, e a oggi oltre 30mila persone hanno composto altrettanti numeri telefonici. Da questo incredibile successo è nato anche il libro “Il telefono del vento – Quello che ho visto al telefono nei sei anni dal terremoto”, scritto dal suo inventore, e poco dopo è uscito il film “The Phone of the Wind”. In Italia l’esistenza della cabina è stata scoperta grazie a Laura Imai Messina, trapiantata in Giappone dal 2006 (aveva 23 anni): undici anni fa ha fondato il blog “Giappone Mon Amour”, oggi punto di riferimento fondamentale per gli appassionati del Sol Levante, e nel 2020 ha scalato le classifiche delle vendite col suo libro “Quel che affidiamo al vento”, che prende spunto proprio da quel telefono. Altre cabine simili sono comparse in seguito altre parti del mondo: in California, in Carolina del Nord, a Washington, in Colorado nel tronco di un albero, in Irlanda poco fuori Dublino (poi è stata distrutta).

Il libro di Laura Imai Messina (archivio)
Il libro di Laura Imai Messina (archivio)
Il libro di Laura Imai Messina (archivio)

Dopo lo tsunami

Sui decine di siti internet, anche in Italia, si possono trovare spezzoni di conversazioni raccolte dal Giappone. C’è un padre che cerca la moglie e una figlia scomparsi dopo lo tsunami: «Ciao Noboyuki, sono papà. Cosa stai facendo adesso? Sei con la mamma? Riesco a malapena a continuare a lavorare, andare avanti. Se fossimo ancora tutti insieme, tua madre, tu e io, le cose andrebbero bene. Io faccio del mio meglio per andare avanti. Tornerò quando sarà di nuovo primavera. Aspetta. E per favore prenditi cura di tua madre». Oppure un vedovo che chiama la moglie per farle sapere che dopo l’inondazione «le nostre figlie e io stavamo cercando il tuo corpo da molto tempo e che, quando ci eravamo quasi arresi, l’ultimo giorno di ricerche l’abbiamo trovato. So che non puoi tornare indietro ma in futuro andrò io da te».

E voi, cosa direste? A chi?

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