Sul New York Times del 27 aprile 1895 c’era soltanto un trafiletto a pagina 5. «Ammazzato perché rifiuta di sposarla. Una giovane donna, Maria Barberi, taglia la gola a Domenico Cataldo». Giusto tre righe, lo scarno resoconto dell’omicidio avvenuto la mattina del giorno prima, alla presenza di diversi testimoni, in un bar del quartiere italiano al numero 428 della Tredicesima Strada Est. Una sarta di ventidue anni - originaria di Ferrandina, in Basilicata - aveva sgozzato con un rasoio il suo convivente. Rientrata in casa si era cambiata d’abito e aveva atteso l’arrivo della polizia. Quando gli agenti arrivarono confessò il delitto, in italiano, perché conosceva a malapena l’inglese; dopodiché venne condotta alle Tombs, il carcere di New York.

È stata lei, un’immigrata italiana, la prima donna condannata alla sedia elettrica. Maria Barbella, non Barberi come erroneamente veniva chiamata dai giornalisti. Durante il processo, cominciato l’11 luglio di quell’anno, aveva raccontato la sua storia, una storia ancora oggi simile a quella della maggior parte delle 800 donne che, nel mondo, attendono l’esecuzione della sentenza nel braccio della morte. Dalla Cina a Taiwan, e Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, India, Stati Uniti, solo per citare alcune delle 55 nazioni dove è in vigore la pena capitale. Paesi diversi, ma c’è un unico filo rosso che unisce la storia di quasi tutte queste donne, spesso poco più che bambine. Sono donne abusate, schiavizzate, vittime di violenze familiari.

Il processo a Maria Barbella infiammò le cronache dei giornali. Alcune testate deploravano «il carattere impulsivo» degli italiani, altre rilevarono vizi procedurali e si schierarono in sua difesa. Lei, accusata di omicidio premeditato, era assistita da un avvocato mediocre. Chiamata a deporre, Maria raccontò del suo amore per il lustrascarpe, di quando decise di andare a vivere con lui dopo che l’aveva disonorata prendendola con la forza, e di tutte le volte che lo supplicava perché la sposasse. Disse che la mattina del 26 aprile era andata al bar per ricordargli la promessa, e che lui rideva e alla fine aveva pronunciato quelle parole. «Soltanto un porco ti sposerebbe».

Maria spiegò perché aveva con sé il rasoio. «Per tagliarmi le vene», nel caso lui l’avesse rifiutata ancora, ma non ricordava il momento in cui tagliò la gola a Domenico. «Non volevo ucciderlo», ripeteva. Un interprete traduceva quella sua strana lingua ch’era un miscuglio di inglese, italiano e dialetto. Così, tra la pessima traduzione della deposizione e il pregiudizio del giudice Goff che liquidava frettolosamente i testimoni della difesa, il verdetto era scontato: colpevole di omicidio di primo grado. Maria Barbella fu trasferita nel carcere di Sing Sing, in attesa dell’esecuzione della sentenza fissata per il 19 agosto. Nello Stato di New York, a partire dal 1845 già sette donne erano state condannate all’impiccagione per omicidio di primo grado (tra queste un’italiana, Chiara Cignarale, nel 1890, ma la pena venne commutata in ergastolo). Da quando però a Sing Sing era stata adottata l’invenzione del dottor Southwik, nel 1891, fu la giovane immigrata italiana la prima donna condannata a morire sulla sedia elettrica.

Il destino di Maria, però, non era scritto dentro quella sentenza. Cora Slocomb, contessa di Brazzà, una scrittrice americana sposata a un nobile italiano, prese a cuore il suo caso, così come Rebecca Salomé Foster, chiamata “l’angelo delle Tombs” perché da sempre era accanto ai detenuti del carcere newyorkese. Le due donne avevano seguito il processo nella speranza che la giustizia valutasse tutte le attenuanti a favore della giovane immigrata. Così non fu, e quindi bisognava salvare Maria dalla sedia elettrica. Cora avviò una petizione di grazia e, contemporaneamente, scelse un giovane e brillante avvocato perché patrocinasse la causa in appello.

Furono distribuiti migliaia di moduli, indirizzati al governatore, per la richiesta di grazia, e ben presto la petizione a favore di Maria Barbella si trasformò nella prima campagna della storia contro la pena di morte.

I quotidiani di New York - dal Sun al Recorder, dal New York Times all’Herald, al Brooklyn Daily Eagle - dopo un’iniziale titubanza si schierarono in difesa della giovane. Il World era fuori dal coro, ma ospitava comunque gli articoli di famose intellettuali femministe come Mary Livermore e Susan B. Anthony che denunciavano l’aspetto razziale del caso: l’ingiustizia nei confronti di una donna e di una povera immigrata.

La scrivania del governatore Morton fu subissata da migliaia di lettere di protesta contro la pena di morte e da 115mila moduli della petizione di grazia con centinaia di firme ciascuno.

Martedì 16 aprile 1896 la Corte d’appello, sulla base delle testimonianze negate e delle parzialità mostrate dal giudice Goff, concesse un nuovo processo a Maria Barbella. Tutto si giocava su un solo punto: stabilire se, al momento del delitto, la giovane era capace d’intendere e volere. Lo era, secondo l’accusa. Non lo era, sostenne invece la difesa, perché Maria - che, come la madre e i fratelli, soffriva di epilessia - «nel momento in cui uccideva Domenico Cataldo, veniva colpita da un attacco epilettico scatenato dall’ultima determinante scossa emotiva causata dal rifiuto di lui», e da quel «“neanche un porco ti sposerebbe”».

«Nell’istante dell’omicidio - dissero gli psichiatri interrogati - l’imputata era in uno stato simile al sonnambulismo: non si rendeva conto di quel che faceva». Venerdì 10 dicembre il verdetto: «Non colpevole». 

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