Quando si racconta un vino con la sua storia si aprono interminati orizzonti e inesplorate emozioni. Si tocca l’ampio spettro dell’universo umano. Non esiste un modello da cui attingere. L’unico faro guida è la grande passione, la voglia di conoscere ciò che si ama. E l’Asprinio d’Aversa, vino e vitigno di rara bellezza (sic!), ne ha fatti innamorare proprio tanti. Michele Scognamiglio, poliedrico intellettuale nonché biochimico, sommelier, giornalista e scrittore è uno del vasto gruppo che ha ceduto davanti alle virtù di questa eccellenza vitivinicola campana. Come lui, e prima di lui, papi e sovrani, artisti e viaggiatori. La stessa Carolina Bonaparte, sorellina di Napoleone, rientra nel club. Ma per stare sui meno datati, Paolo Monelli, Luigi Veronelli e Mario Soldati. Michele Scognamiglio gli ha dedicato un bellissimo libro: “Asprinio d’Aversa, racconto di un matrimonio felix di 3000 anni fa” (Cuzzolin editore, 2022, 24 euro). Un chiaro esempio della ricchezza storica-umana-artistica che avvolge un vitigno e un mirabile vino. Un libro straordinario dove è palese la visione estetica che fa magistralmente bello un grande vino.

Il volume di Michele Scognamiglio (foto Roberto Ripa)
Il volume di Michele Scognamiglio (foto Roberto Ripa)
Il volume di Michele Scognamiglio (foto Roberto Ripa)

IL LIBRO Torniamo alla cadetta della famiglia Bonaparte. Carolina, moglie del re di Napoli, Gioacchino Marat, doveva essere davvero affascinata e rapita dagli spettacolari festoni e ghirlande di viti sospese nel cielo campano se in una lettera del 1808 scrisse: «Questa è la Terra Promessa, nella campagna si vedono festoni di viti attaccati agli alberi, con sparsi grappoli di uva assai più belli di quelli che gli Ebrei portarono a Mosè. Spero che quanto ti dico, ti ispiri il desiderio di venire a vedere questo paese, vale la pena di fare 500 leghe per vederlo». Da queste parole Michele Scognamiglio inizia un lungo e piacevole itinerario che, attraverso una scrittura snella, accattivante ma rigorosa, porta il lettore alla scoperta di un mondo eroico e stupendo ma, purtroppo, a rischio estinzione. Per dirla con le parole del noto compositore e direttore d’orchestra, nonché produttore vinicolo, Peppe Vessicchio, che ha curato una delle due prefazioni del libro, «grazie ad un coltivato desiderio di conoscenza sostenuto da una solida formazione scientifica, l’Autore ha riunito in questo prezioso volume citazioni documentali sagacemente storicizzate, interessanti riflessioni antropologiche e raffinati concetti di interazione biologica. Una visione rapida, utilmente schematica e intelligentemente ramificata, proprio come i tralci dell’Asprinio nel loro funzionale e secolare abbraccio matrimoniale al pioppo». Mentre Antonio Medici, che ha firmato la seconda prefazione, ricorda come «il fatto che l’Asprinio non abbia la fortuna del Prosecco o il prestigio del Franciacorta, è diabolica volgarità dell’uomo che ha provato a estirpare le radici di una viticoltura, quella della vite maritata, dalla tecnica antichissima e dalla simbologia vasta e radicata nei valori profondi della cristianità».

Michele Scognamiglio, scrittore e giornalista (foto concessa)
Michele Scognamiglio, scrittore e giornalista (foto concessa)
Michele Scognamiglio, scrittore e giornalista (foto concessa)

UN MATRIMONIO VIP Quando si parla di Asprinio d’Aversa, vitigno a bacca bianca, si parla naturalmente «del suo suggestivo e singolare sistema di allevamento», l’alberata aversana. La tecnica di assicurare la vite a un sostegno vivo, una pianta, trova una sua origine nella civiltà etrusca, anche se l’autore del libro ricorda che molto probabilmente «esiste una stratificazione etnica addirittura anteriore» che riporterebbe indietro il calendario «alle popolazioni paleoliguri dell’antica Padania». In questo percorso culturale e colturale con ricchezza di citazioni geografiche e di analisi botaniche (stupenda  la ricostruzione antropologica e scientifica sulla scelta oculata del “marito” da dare alla vite: acero oppio, olmo, gelso, pioppo) Scognamiglio, attraverso la storia archeologica di questo metodo di allevamento della vite, dedica ampie pagine all’eroismo di quanti (ormai sempre meno) tengono in vita questa preziosa eredità millenaria. Sono gli irriducibili dell’Asprinio, ostinati contadini con radici profonde e saldamente ancorate alla propria terra. Sono gli uomini dei campi (e dell’aria) che a dispetto degli enormi sacrifici economici e personali, credono e insistono in questo straordinario lascito. «La sola vendemmia di uve alberate richiede costi che vanno moltiplicati per tre», puntualizza l’autore. I protagonisti di questa impresa spettacolare «che tiene tutti con il naso all’insù» sono gli acrobatici “uomini ragno” dai capelli canuti che si «arrampicano e si muovono con destrezza tra gli altissimi tralci» utilizzando lo scalillo, una lunga e stretta (30 centimetri) scala in legno di castagno. L’uva raccolta a mano su questo grande muro verde di viti, viene sistemata in una particolare cesta di vimini. L’estremità a punta del contenitore permette stabilità una volta calata a terra, evitando che il cestino possa ribaltarsi.

IL VINO Nel libro naturalmente non mancano riferimenti alle qualità organolettiche dell’Asprinio d’Aversa con interessanti pagine dedicate agli Appunti di degustazione, ricchi di consigli anche sui vari abbinamenti cibo-vino. «L’Asprinio d’Aversa –  si legge – è sicuramente uno dei vini più immediatamente riconoscibili per l’inconfondibile freschezza ed il carattere “aspro” da cui deriva il nome». E ancora: «Al naso non passa inosservato. Il profumo è tenue, delicato eccetto le inconfondibili e ben pronunciate note agrumate di limone, cedro, lime e pompelmo, appena accennate quelle di fiori bianchi e gialli, di mela e di mandorla. Ma è in bocca che l’Asrpinio dà il meglio di sé e conquista gli appassionati». Avvincenti le pagine di questo libro dove si riportano le emozioni descritte da quanto hanno incontrato questo vino. Su tutti Paolo Monelli ne “Il vero bevitore”: «L’Asprinio è una passeggiata a mare, col sole abbagliante, lo scintillio dell’acqua, il frangersi placido delle onde tra gli scogli e sul bagnasciuga, coi granchietti che si arrampicano dove la roccia resta madida a fasi alterne, ed i carretti colorati degli ambulanti offrono limoni e cartocci di trippa ghiacciata, come ne ho visto a Napoli... l’Asprinio non è un vino, è un’idea, un’evocazione, un fantasma... è luce, roccia, sale e profumo di limone in essenza distillata, senza peso, senza materia». Il resto è meglio viverlo attraverso un contatto ravvicinato al calice. Si parla inoltre delle denominazioni e del disciplinare della Doc Aversa, riconosciuta il 31 luglio del 1993.

IL SOGNO L’autore, giustamente, sottolinea in più occasioni il merito dei pochi laboriosi vignaioli che ancora oggi sacrificano tutto per la sopravvivenza di questi «veri e propri monumenti viventi di archeologia vegetale che non hanno eguali in nessuna altra parte del mondo». Un corredo genetico rarissimo trasmesso di padre in figlio, tutore di questo sistema di allevamento: ovvero far arrampicare, maritare, i tralci delle viti, franche di piede con pioppi (più raramente olmi) «che raggiungono i 15 e più metri di altezza formando delle vere e proprie barriere vegetali». Un mondo parallelo e purtroppo poco conosciuto sempre più asfissiato dalla frenetica quotidianità urbana. E il messaggio del libro non lascia margini di accomodamenti o di fughe dalle responsabilità di ciascuno. Non è solo un appello, è un chiaro monito a cambiare rotta. L’Asprinio d’Aversa con il suo millenario patrimonio vitivinicolo giunto sino a noi, è una gemma preziosa che abbiamo avuto in prestito dalla storia e dalla natura, ora «la terra ci aspetta». Infine, c’è un ulteriore aspetto forse meno esplicito, ma molto bene presente nella pagine di questo libro: la innata e strategica dimensione estetica del vino del Bel Paese. «In una bottiglia di Asprinio, ancor prima di un vino, è custodito un immenso valore storico, umano e culturale», ci ricorda Michele Scognamiglio. Degustare un calice di Asprinio significa essere dei privilegiati ed entrare nella eterna bellezza dell’enologia italiana. Mai dimenticarlo.

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