Alessandro Farnese, Papa Paolo III, ebbe 4 figli: Costanza, Pier Luigi, Paolo e Ranuccio. Siamo in pieno Rinascimento, ci sta. Il cardinale etichettato come un “donnaiolo” era uomo di mondo anche per quella sua passione per i vini. Volle accanto a sé per tutto il suo pontificato durato 15 anni, un vero sommelier, Sante Lancerio.

IL PAPA Uomo di grande cultura, Alessandro si era formato nella Firenze dei Medici, dove ce l’aveva spedito la mamma Giovannella (i Caetani erano discendenti di Bonifacio VIII) per modellarlo un pochino meglio, visti i turbolenti trascorsi giovanili passati a Roma con all’attivo anche un affatto edificante passaggio in carcere. Giovannella, come da tradizione di famiglia, lo vedeva molto bene papa e dunque lo avviò alla carriera ecclesiastica. Alessandro apparteneva a una potentissma casata paterna, quella dei Farnese, originaria della Tuscia, tra Toscana, Lazio e Umbria, costellata nel bene e male di condottieri, cardinali e pontefici. E possidenti di vigne, contadi e frutteti. Paolo III entra nella storia per aver irrobustito la pratica del nepotismo italiano (figli e nipoti da sistemare); aver istituito la Congregazione del Sant’Offizio; aver autorizzato Ignazio di Loyola a fondare la Compagnia di Gesù; e aver convocato il Concilio di Trento, Anno del Signore 1545. Grande mecenate, chiamò a Roma illustri artisti e poeti, fra tutti Tiziano, autore di famosi ritratti papali, e Michelangelo a cui, tra le altre commissioni, confermò l’ordine affidatogli dal suo predecessore, di affrescare il fondo della Cappella Sistina con Il Giudizio Universale. Meno conosciute invece sono le sue passioni per il buon mangiare e il buon bere. Vino da tutta la Penisola e oltre. Tanto da dotarsi di un vero e proprio sommelier ante litteram, o meglio, un bottigliere pontificio. Sante Lancerio, faceva al caso suo.

Il famoso Ritratto di Paolo III, olio su tela, di Tiziano Vecellio. Archivio L'Unione Sarda
Il famoso Ritratto di Paolo III, olio su tela, di Tiziano Vecellio. Archivio L'Unione Sarda
Il famoso Ritratto di Paolo III, olio su tela, di Tiziano Vecellio. Archivio L'Unione Sarda

LA PRIMA GUIDA DEI VINI Sante viveva nella Roma vaticana pagato e omaggiato dal Papa perché esperto degustatore, capace di dare preziosi consigli, indirizzare negli acquisti, nelle degustazioni e, perché no, anche negli abbinamenti a tavola. Di lui si conosce relativamente poco, lo si identifica come uno storico e un geografo vissuto in massima parte nella prima metà del 1500. Entra nella storia però grazie a una lunga e singolare lettera indirizzata al cardinale Guido Ascano Sforza, suo benefattore. L’epistola manoscritta, custodita nella biblioteca Ariostea di Ferrara, dopo circa tre secoli finì sotto gli occhi di Giuseppe Ferraro, un insegnante, studioso di tradizioni popolari locali, che la pubblicò per la prima volta nel 1876 col titolo lunghetto: “I vini d’Italia giudicati da Paolo III (Farnese) e dal suo imbottigliere Sante Lancerio. Operetta tratta dal manoscritto della biblioteca di Ferrara e per la prima volta pubblicata da Giuseppe Ferraro”. In tutto 55 vini che Lancerio descrive con incredibile modernità: parla dei territori del vino, inventa gli aggettivi più efficaci a darne le caratteristiche sensoriali e organolettiche, e con una lungimiranza inaspettata anticipa quasi i concetti di cru, di terroir e mineralità.

I VINI «Sono anche a Gradole (Gradoli, cittadina sul lago di Bolsena ndr) dei perfetti vini, massime della vigna del Fanuzzo, di Vico, di Cecco il calzolaio, et di una vigna che il Duca di Castro fece piantare del vitame di Monterano, è vero però che non fa il vino di quella bontà...», ci dice. Delle vigne di Caprarola (comune del Viterbese), il bottigliere di Farnese rileva che «tale vino sente alquanto del terreno». Per il «vino moscatello che viene all’alma Roma da più province» elogia quello di «una villa nomata Taglia (Taggia, provincia di Imperia, ndr) et quelli non hanno del cotto, come quelli di Sicilia e di Montefiascone. A voler conoscere la loro perfetta bontà, bisogna non sia di color acceso, ma di colore dorato, non fumoso et troppo dolce, ma amabile, et habbia del cotognino et non sia agrestino». Insomma “incerato, carico, verdeggiante, dorato” sono termini che il Lancerio usa per definire il colore del vino; “tondo, grasso, asciutto, fumoso, possente, forte, maturo” il gusto. A tavola meglio, suggerisce, passare dai più leggeri ai più forti con i bianchi per i piatti di ingresso del pranzo, i vini rossi per gli arrosti e infine vini per i dolci. Nella lettera inoltre si parla dei diversi vini anche come espressione di status sociale. «Il Moscatello ideale per osti e imbriaconi... il Greco della Torre che diventa presto scuro, buono per la servitù ma non per gli alti prelati... il Rosso di Terracina, ottimo per notai e copisti... il Mangiaguerra di Napoli pericoloso per il clero, ma ideale per incitare la lussuria delle cortigiane». Tra i più gettonati dal Papa e da lui c’erano Malvagia di Candia, Vernaccia di San Gimignano, Greco d’Ischia e Nobile di Montepulciano. All’Asprinio una nota di merito per le sue proprietà terapeutiche, come ricorda lo studioso Michele Scognamiglio nel libro “Asprinio d’Anversa, racconto di un matrimonio felix di 3000 anni fa”.  Il “greco” passa per il migliore dei vini, e il “greco di Somma” sarebbe irraggiungibile dagli altri “greco”. Va conservato con cura affinché da «fumoso e possente», alcolico e ciccione, «diventi dorato e profumato». Il Papa evita di portare nei suoi viaggi il “greco di Posillipo”, «non sopporta il movimento dei carri», soprattutto quando il caldo è intenso, spesso sa di “agresto e di grasso”, e non è possibile porvi rimedio. Il “greco d’Ischia” talvolta risulta “lapposo”, e va filtrato attraverso una “concia di tacchie”. Stronca il “greco di Torre”: ci sono annate in cui si annerisce, ma anche nelle annate buone è vino per servi e per “fornaciari”.  Dopo la morte di Farnese avvenuta il 10 novembre 1549, sale sulla soglia papale Giulio III. È il il 7 febbraio 1550. Di Lancerio si perdono le tracce. Resta però quella sua lettera che ha conosciuto tantissimi stimatori. Il primo testo della letteratura enologica italiana che ancora oggi genera curiosità e stupore.

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