«Olindo e Rosa come Beniamino Zuncheddu». Non una boutade, ma la certezza su cui da tredici anni sta lavorando Diego Soddu, l’avvocato lombardo di Bollate con 100 per cento di sangue sardo (il padre è di Monserrato, la madre di Villaspeciosa). Soddu, 48 anni compiuti a gennaio, è il tutore della coppia di Erba, accusata del quadruplice omicidio di via Diaz. Era l’11 dicembre del 2006. La sentenza passa in giudicato il 3 marzo del 2011, a cinque anni dalla strage, quando anche la Cassazione conferma la condanna all’ergastolo. Sembra l’inizio della fine. Ma il 9 gennaio scorso la Corte d’appello di Brescia accoglie la richiesta di revisione. «Lo stesso percorso giudiziario che ha portato all’assoluzione di Zuncheddu», sottolinea Soddu.

L’avvocato classe 1976 diventa tutore di Olindo Romano e Rosa Bazzi nel 2011, dieci anni dopo aver iniziato la pratica nello studio di Fabio Schembri, uno dei legali che a partire dal 2007 prende in mano i faldoni di Erba, sostituendosi agli avvocati nominati d’ufficio. Schembri da subito considera ingiusta la detenzione di Olindo e Rosa, un cammino che ripartirà da zero il prossimo 1° marzo, con l’avvio  del processo bis. I giudici, innanzitutto, dovranno stabilire quali nuove prove accogliere tra quelle portate dalla difesa e con la quali gli avvocati di Rosa e Olindo vogliono dimostrare che la coppia non c’entra nulla con il sangue e il fuoco di quella sera. A morire furono il piccolo Youssef Marzouk, due anni e tre mesi; la mamma Raffaella Castagna, di 30; la nonna Paola Galli, di 57; la vicina di casa, Valeria Cherubini, di 55.

Avvocato, da tutore di Olindo e Rosa cosa fa?

«Alla fine di ogni anno preparo il resoconto economico. La figura del tutore è obbligatoria nel caso in cui venga inflitto l’ergastolo. Per questo tipo di pena scatta anche quella accessoria dell’interdizione legale. Di qui la necessità di nominare un tutore che rappresenti i condannati».

Olindo e Rosa hanno proprietà?

«No. Per pagare almeno una parte del risarcimento dovuto alle persone offese, come stabilito nella sentenza, hanno dovuto vendere tutto quello che avevano: la loro casa di Erba, l’auto e il camper. Il resoconto economico annuale si limita all’elenco delle poche entrate e delle poche spese».

Come si mantengono Olindo e Rosa?

«Con i soldi che guadagnano dal lavoro in carcere».

Non hanno una pensione?

«No. Rosa non aveva un impiego fisso prima dell’arresto, faceva le pulizie a ore. Olindo era assunto come netturbino, ma aveva poco più di 40 anni quando è entrato in carcere. Rosa è del ’63, Olindo del ’62».

Sono sempre detenuti in due penitenziari diversi?

«Sì: Rosa sta a Bollate, Olindo a Opera».

Hanno figli?

«No».

Parenti?

«Rosa non ne ha più, Olindo sì».

Vanno a trovarlo in carcere?

«Coi suoi parenti Olindo si telefonicamente, lui li chiama».

La tanto agognata richiesta di revisione come nasce?

«La storia comincia da lontano. Enzo Pacia, un veterano nel foro di Como, venne contattato dal cappellano e dalla psicologa del carcere cittadino: a loro Olindo e Rosa, detenuti inizialmente nello stesso penitenziario del capoluogo lombardo, fecero le prime confessioni sulla loro innocenza. Non potendosi occupare personalmente del caso, l’avvocato Pacia si rivolse a due giovani colleghi: Fabio Schembri, appunto, e Luisa Bordeaux».

È il 2007. Poi cosa succede?

«Nel 2010 Pacia muore e gli subentra Vincenzo Nico D’Ascola. Da allora il collegio difensivo è rimasto lo stesso con Schembri, Bordeaux e lo stesso D’Ascola».

Lei, da tutore, conosce tutte le carte. Ci spiega perché Olindo e Rosa, reo confessi agli inizi della detenzione, hanno cambiato versione?

«Perché erano stati indotti a confessare».

Da chi?

«Sono stati pressati dai Pm che li interrogarono. Olindo e Rosa si sono sempre professati innocenti prima di essere arrestati l’8 gennaio del 2007. Del resto, neanche dalle intercettazioni fatte all’indomani della strage e sino all’ordinanza di custodia cautelare emerge il loro coinvolgimento nel quadruplice omicidio. Addirittura Olindo e Rosa si dichiarano innocenti anche nel primo interrogatorio dopo l’arresto».

Arriviamo al 10 gennaio 2007. Prego, continui.

«Quel giorno, due carabinieri incontrano Olindo e Rosa in carcere. Avrebbero dovuto prendere loro le impronte digitali. Ma tant’è: rimangono a parlare con Olindo per più ore, anche della strage. Successivamente Olindo parla con Rosa e le riferisce la conversazione con i militari dell’Arma. Spiega alla moglie che se lui confessa avrà uno sconto di pena. Rosa si dispera: “Ma perché devi dire tutto questo? Lo sai che non hai fatto nulla”. Olindo ribatte: “Lo so, ma questo mi sembra il minore dei mali”. Questo è tutto intercettato. Questa è la genesi di quelle che vengono considerate confessioni».

Ma se i Pm hanno estorto a Olindo la confessione, come mai non esiste uno straccio di denuncia?

«Sulla non genuinità delle confessioni la difesa ha argomentato nel processo, non c’è bisogno di una formale denuncia. La difesa ha manifestato la propria contrarietà anche rispetto alla modalità di conduzione dell’interrogatorio».

Come mai nemmeno un giudice, né in primo né in secondo grado, ha mai notato nulla di strano?

«Questa domanda dovrebbe essere rivolta a loro. Quello che posso dire è che la Corte d’Appello di Brescia ha ammesso il giudizio di revisione. Speriamo che si possa fare finalmente chiarezza».

La traccia di sangue trovata nel battitacco della Seat Arosa di Olindo è stata per l’accusa la prova regina.

«Questa è la prova scientifica, uno dei tre pilastri su cui si è retto il giudizio di colpevolezza dei coniugi. La traccia appartiene alla Cherubini, una delle vittime. Si tratta di sangue repertato dal brigadiere Fadda, che lavorava al Comando di Como. Ma quel materiale ematico nessuno l’ha visto. Nell’unica foto scattata, è stato usato un evidenziatore per indicare il punto della macchia, che infatti non si vede».

Perché dice «infatti»?

«Siamo all’abc della repertazione in ambito forense: se una traccia di sangue è visibile grazie al luminol, basta fare una foto con la luce spenta perché si veda. Nulla di tutto questo è avvenuto. La pensa come noi il sostituto Tarfusser, secondo il quale manca la prova della catena di custodia del reperto. La legge impone che ogni qualsivoglia elemento di colpevolezza vada documentato dall’inizio alla fine. Sennò non si può dimostrare che l’analisi fatta successivamente corrisponda a quel preciso reperto».

Voi cosa contestate di quella traccia di sangue?

«Dai verbali risulta che sia stata repertata dopo l'aspersione del luminol».

Ma se pensate che la prova non esista, che la macchia non esista, come potete sostenere che è stata repertata dopo l’aspersione del luminol?

«Non è che non esiste. Il problema è che non si capisce dove quella macchia di sangue sia stata presa».

In che senso?

«Il brigadiere Fadda ha detto che l’ha trovata sul battitacco della Arosa usando il luminol. Ma se è andata così, vuol dire che la superficie è stata lavata. Altrimenti non ci sarebbe stato bisogno del luminol. Quanto trovato sul battitacco è stato poi analizzato dal Carlo Previderè, professore dell’Università di Pavia, consulente del Pm. Nella sua relazione ha scritto che quella traccia era pura, non degradata, integra. La difesa rileva dunque una contraddizione rispetto all’impiego del luminol, che viene utilizzato quando una macchia di sangue è stata lavata».

La vostra convinzione qual è?

«Il giorno della strage i carabinieri sono saliti sul luogo del delitto. Qualche ora dopo risulta che hanno perquisito l’auto di Olindo e Rosa. Possiamo o no avere il dubbio che quella traccia di sangue sia stata portata in modo innocente dagli inquirenti? Come detto, quanto accertato dal consulente del Pm è incompatibile con quanto sarebbe stato repertato dal brigadiere Fadda. Si tratta di tracce completamente diverse, questo non è un problema di poco conto. Ciò si lega alla mancata documentazione sulla catena di custodia della traccia di sangue. Inoltre si consideri che l’auto di Olindo venne perquisita da chi, poco prima, si trovava sul luogo della strage. Per questo la difesa contesta anche l’inquinamento probatorio incolpevole».

Perché nessun giudice ha mai avuto questo sospetto?

«In primo grado la questione viene superata dalla Corte d’Assise perché durante il processo i carabinieri che fecero prima il sopralluogo sulla scena crimine e poi la perquisizione nella macchina di Olindo dissero che in realtà si limitarono solo a firmare il verbale. Ma senza fare materialmente la perquisizione. La quale, invece, venne svolta da un altro militare dell’Arma che però non compare tra i firmatari del verbale».

Nemmeno in secondo grado i giudici hanno creduto alla vostra versione?

«Tutte queste doglianze sono state superate in modo vergognoso anche in appello, sulla base del fatto che i carabinieri hanno giurato di dire la verità, quindi bisognava credere loro a prescindere. L’ipotesi della contaminazione innocente non è mai stata presa in considerazione».

Arriviamo a Frigerio, l’unico testimone della strage.

«Inizialmente non riconobbe Olindo. Anzi lo descrisse olivastro, non del posto, una persona mai vista prima».

Ma questo lo disse appena uscito dal coma.

«Frigerio viene colpito, quindi soccorso ed entra in coma farmacologico. Si sveglia il 15 dicembre. Quel giorno lo sente per la prima volta dal pm Pizzotti. Sono presenti anche i figli, i medici e gli ufficiali di polizia giudiziaria. Racconta quello che è avvenuto. Quando deve descrivere chi l'ha aggredito, parla di una persona con la carnagione olivastra, non del posto e dice di non averla mai vista. La descrive come più alta di lui con tanti cappelli neri e senza baffi. Alla fine dell'audizione dice al Pm che la casa di Raffaella Castagna era frequentata da persone poco affidabili di etnia araba».

Cosa non vi torna di quel racconto?

«Se una persona viene aggredita dal proprio vicino di casa, è difficile che non lo riconosca. Il giorno dopo che Frigerio è uscito dal coma, lui continua con la stessa descrizione del presunto omicida. La prima versione resa al Pm la ripete anche quando si trova da solo col proprio avvocato. Poi succede che il 20 dicembre il comandante della stazione dei carabinieri di Erba va senza delega alcuna all'ospedale di Como, dove Frigerio è ricoverato, e gli fa domande per un’ora e mezza».

Quindi?

«Il comandante dell’Arma gli chiede se l’omicida poteva essere Olindo. In Frigerio è stato prodotto il classico falso ricordo».

Secondo voi chi ha ammazzato la Castagna, il figlio, la mamma e la moglie di Frigerio?

«Frigerio inizialmente descrive un extracomunitario dalla carnagione olivastra, di etnia araba. Altri testimoni, mai sentiti durante il processo, riferiscono di aver visto persone extracomunitarie percorrere di fretta via Diaz dopo la strage».

Chi li ha visti?

«Per esempio un testimone, Fabrizio Manzeni. Ai carabinieri ha riferito di aver notato tre extra comunitari dirigersi in piazza Mercato, attraversando via Diaz».

Perché il raccontato di Manzeni è stato considerato irrilevante?

«Nel processo (di secondo grado) la sua testimonianza non è stata nemmeno ammessa. La stessa cosa la riferisce anche un’altra persona, un cittadino extra comunitario».

È stato sentito in tribunale?

«No. La Procura disse che era irreperibile».

Il 1° marzo inizia il processo di revisione. Cosa succederà nella prima udienza?

«Intanto con l’ammissione della richiesta di revisione Olindo e Rosa tornano a essere imputati. Il processo si aprirà con l’istruzione delle nuove prove. Ma non saprei dire quante udienze saranno necessarie».

Può succedere che la Corte d’appello di Brescia sospenda loro la pena?

«Sì, potrebbe accadere».

In quella stessa prima udienza si deciderà quali prove verranno ammesse tra quelle nuove che avete presentato?

«Sì».

Poi?

«Poi ci sarà l’istruttoria e infine la discussione».

In quanto tempo?

«Non possiamo sapere nemmeno questo».

Alla discussione si arriva nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore?

«Il processo di revisione è stato ammesso. Potrà concludersi con un giudizio di assoluzione, come auspico. Ma potrà terminare anche con una conferma della condanna, avverso la quale la difesa potrà proporre ricorso per Cassazione».

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