Bisogna provare a scovare bene in mezzo al nero infinito. Tra i ventimila ettari di scheletri e carbone. Il miracolo è lento, debole, ma resistente. Sì resistente: alle difficoltà di un territorio rigoglioso che ora sembra ricoperto da una colata di catrame e pure al pessimismo di chi da queste parti vive e ha perso tutto, di chi non sa come fare per ripartire e teme che la parola aiuti finisca nell’elenco lungo delle immorali promesse. Mentre il Montiferru si dispera e i pastori temono l’arrivo delle piogge autunnali, la natura reagisce. Silenziosamente e senza farsi notare. Da due mesi la Sardegna è finita nella zona rossa della sempre più larga mappa del disastro ecologico planetario ma a queste latitudini c’è ancora una speranza verde. È una regola cromatica ben nota, s’impara all’asilo: il nero copre e spegne tutti gli altri colori e ciò che ha lasciato in questi costoni la corsa terribile degli incendi sta nascondendo il risveglio lento delle piante. 

Per trovare le tracce della resurrezione non basta fermarsi sulle strade principali, dove non ci sono più i grandi cespugli e dove non si vedono più i pascoli. Non si incontrano più le mandrie di vacche né i cinghiali in fuga, sulla Statale che da S’Archittu porta a Cuglieri e che da Sennariolo arriva Bosa. È tutto spento, ma solo apparentemente, anche tra le curve tra San Leonardo e Santu Lussurgiu, nei tornanti intorno a Scano Montiferro e Tresnuraghes. C’è persino un silenzio irreale: lunare. Sembra tutto pietrificato, ma è un’illusione ottica. Per vedere i movimenti lenti delle foglie è necessario andare in giro tra oliveti devastati e campi spinosi, avventurarsi per un giorno intero tra i saliscendi e farsi accompagnare da chi da queste parti aveva costruito aziende zootecniche da modello o da chi produceva olio e cannonau di qualità e ora si ritrova senza piante e senza vino. 

Uno dei tantissimi alberi divorati dalle fiamme (foto N. P.)
Uno dei tantissimi alberi divorati dalle fiamme (foto N. P.)
Uno dei tantissimi alberi divorati dalle fiamme (foto N. P.)

Quello che non ti aspetti è un albero carbonizzato, ridotto a scheletro, ma che ricomincia a ricoprirsi del suo abito migliore. Foglie nuove, sì ancora piccole e deboli, ma che pian piano ricoprono i tronchi. La resistenza delle sughere è la speranza della ripresa. E qualche buon segno c’è anche tra i sassi rovesciati dei muretti a secco, perché qui la corsa del fuoco è arrivata con la potenza di un uragano: ha bruciato tutto, ma ha anche abbattuto muri e certezze. Ha persino fatto esplodere i grandi massi: ridotti a mille pezzi rocce granitiche da molte tonnellate. È esploso un vulcano sulle cime intorno a Cuglieri e Santu Lussurgiu, ma la lava ha lasciato margini alla speranza. 

La reazione delle piante (foto N. P.)
La reazione delle piante (foto N. P.)
La reazione delle piante (foto N. P.)

Il grido incoraggiante è quello che arriva dai fichi d’india che si ripresentano nelle cunette, dove persino le erbe infestanti ora fanno ben sperare. Negli oliveti della famiglia Cocco, che da decenni produce olio pluripremiato, la strage ambientale ed economica si può misurare a occhio e si teme che prima di far lavorare a pieno ritmo i frantoi siano necessari 20 anni. Perché il grosso della produzione era legato agli alberi secolari. E piantarne migliaia non basterà a rimettere in moto la macchina. Ma nel vigneto di Sebastiano Pisanu, tra viti piantate da 120 anni, la speranza è ai lati, vicino ai muretti, dove sono persino sbocciate le rose. Quest’anno non si potrà vendemmiare ma quei petali dicono che qui non tutto è perduto. 

Due asini nei campi distrutti dai roghi (foto N. P.)
Due asini nei campi distrutti dai roghi (foto N. P.)
Due asini nei campi distrutti dai roghi (foto N. P.)

La natura, si sa, reagisce in modi molto diversi e i 150 ettari del pascolo di Chiccho Diligu sono diventati il regno incontrastato di una coppia di quadrupedi che si è formata nei giorni della disperazione lasciata dal fuoco. Dove c’era un pascolo verde ora sono rimasti cespugli carbonizzati e in questo deserto di cenere un cavallo e una mula sono diventati amici. Di più, sembrano innamorati: si spostano solo insieme, si proteggono a vicenda, come in un’alleanza di sangue stretta nei giorni in cui gli animali non sapevano più dove correre per provare a salvarsi. Loro ce l’hanno fatta ma ora Chicco Diligu non riesce più ad avvicinarli. «Ho perso quattro mucche, due asini, due cavalli e trenta capretti - racconta - Ho pianto per una settimana, specie per l’asinello che era diventato quasi mio figlio: ogni volta che arrivavo in campagna mi veniva incontro di corsa e mi dimostrava tutto il suo affetto». 

Una cavallo e una mula (foto N. P.)
Una cavallo e una mula (foto N. P.)
Una cavallo e una mula (foto N. P.)

Legatissimo al suo padrone era diventato anche il cinghialetto di Antonello Meloni, ma pure lui non è riuscito a sfuggire alla maledetta avanzata del fuoco: «L’avevo salvato durante una battuta di caccia, sì perché noi cacciatori non siamo i nemici degli animali. Era piccolissimo ed era rimasto da solo, forse aveva perso la mamma. Vagava disperato, ma ancora non riusciva a procacciarsi il cibo da solo. Allora l’avevo portato nel mio podere: l’ho allevato quasi come un bambino, col biberon. È cresciuto qui e ha scelto di non tornare a correre da solo in mezzo alla campagna: si faceva accarezzare, si comportava quasi come un cane. Era il diventato il mio migliore amico, ma quando è arrivato l’incendio non ho avuto il tempo di metterlo in salvo. Avrei rischiato la vita per lui, ma le fiamme erano già arrivate». 

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