L’Isola di Dario Coletti, trent’anni di fotografia
Con i suoi scatti ha raccontato il lavoro nelle miniere, le feste tradizionali e tanto altro. Professionista romano di fama internazionale, è molto legato alla Sardegna: «Una volta scoperta, non ho mai smesso di frequentarla»Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Qualche mese fa, dopo aver ricevuto un premio di grande prestigio ha reso omaggio alla Sardegna, una terra che ama e che racconta con i con i suoi scatti d’autore. «Ho trovato un’autenticità che mi ha portato a lavorarci per oltre trent’anni. Una volta scoperta, non ho mai smesso di frequentarla». Parole di Dario Coletti, il fotografo romano, recentemente insignito del premio Internazionale “Flaiano Fotografia” alla carriera. «Sono stato in Sardegna per la prima volta in vacanza da bambino con i miei genitori – racconta Coletti – ma il mio legame con l’Isola è iniziato nei primi anni Novanta quando documentai la protesta dei minatori del Sulcis». La giuria del premio “Flaiano” nella motivazione scrive: «Da sempre attento alle tematiche sociali e antropologiche, ha saputo raccontare e far conoscere aspetti, tradizioni e problematiche dell’Italia, delle sue regioni e periferie, con sguardo attento e carico di particolare sensibilità, ma sempre reale“ ecco perché “è il nome più giusto da associare alla prima edizione del Premio Flaiano Fotografia”».
Dario Coletti nasce a Roma nel 1959. È considerato uno dei più importanti fotografi italiani contemporanei. Ha pubblicato libri, collaborato con giornali e riviste, istituzioni umanitarie italiane e internazionali. I suoi scatti sono stati esposti in Italia e all’estero. Le sue fotografie sono conservate presso biblioteche e musei italiani. Ha accolto con grande soddisfazione il premio Flaiano. «Queste cose fanno sempre piacere – sottolinea – in questo riconoscimento c’è tanta Sardegna». Dario Coletti torna spesso nell’Isola. Qualche settimana fa è stato ospite a Mogoro del festival BiFoto, dive ha incontrato molti fotografi che si sono rivolti a lui per la cosiddetta “lettura del porfolio”.
“Gente di miniera”, il primo reportage in Sardegna
«Era il febbraio del 1993 – ricorda Coletti – in quel periodo mi stavo occupando della questione operaia. Andai a Iglesias e parlai con un minatore. Il suo nome di battaglia era “Confusione”. A differenza di altre situazioni che c’erano in quel momento in Italia questo operaio mi disse che loro non volevano sentire parlare di scivoli per la pensione o buonuscite. Le sue parole mi colpirono: “Noi restiamo qui, non ci muoviamo”. Questa determinazione mi ha convinto a scegliere la Sardegna. Sbarcai a Olbia e mi fermai a Ottana dove c’era il carnevale. Un colpo d’occhio bellissimo». Il fotografo romano quando arriva nel Sulcis documenta con il reportage “Gente di miniera” la fase finale dell’epopea mineraria. Poi ancora tanti altri lavori, tra cui una fanzine con le immagini scattate nel Montiferru dopo una serie di incendi.
Scrittura e fotografia
Ci sono fotografi che scattano e basta. Altri, come Dario Coletti, che invece comunicano anche con la scrittura. «Nella mia casa di Roma ho un bauletto pieno di quaderni e agende. Ho pubblicato tantissimi libri e per ogni lavoro ho preso appunti, annotato pensieri, stati d’animo. Ricordo che nel 2010 feci una mostra e un editore rimase colpito dalle didascalie. Le immagini erano state scattate in Sardegna. Mi chiese di scrivere dei racconti. A distanza di anni mi capita di rileggerli e resto sempre sorpreso, quasi come se non li avessi scritti io. Tra i grandi fotografi, ci sono quelli capaci di portare le loro idee nella scrittura. Fotografare è spesso un atto di solitudine, ma scrivere richiede di togliere l’io per arrivare al noi, coinvolgendo gli altri. La chiave è far identificare il lettore con la tua storia, sostituendo l’individualismo con la condivisione».
L'intelligenza artificiale e la fotografia
Come tutti i fotografi (e non solo) anche Dario Coletti osserva con molta attenzione gli sviluppi dell’intelligenza artificiale. «La storia della fotografia è costellata di grandi momenti di allarme – sottolinea - dai cambiamenti tecnologici come il passaggio dal banco ottico alle macchine veloci, dalla pellicola al digitale. Tuttavia, la fotografia non è mai morta: è viva e vegeta. Non bisogna avere paura dell’intelligenza artificiale. Nel campo della fotografia documentaristica, la testimonianza rimane centrale, e non credo che l’IA cambierà molto. Tuttavia, per alcuni generi come still life e la fotografia di moda, potrebbe aprire nuovi scenari. Personalmente, trovo affascinante come attraverso le parole si possano costruire immagini. Pensiamo ai grandi scrittori come Proust: le loro descrizioni costruiscono scene visive potenti. Quando consiglio a uno studente di avviare un lavoro fotografico, suggerisco sempre di iniziare scrivendo. Una pagina bianca su cui appuntare i termini fondamentali aiuta a costruire un ragionamento più solido. L’intelligenza artificiale è un segno del nostro tempo».
La cultura fotografica in Italia
«La cultura fotografica manca nella società in generale – afferma Dario Coletti - e sono pochi coloro che sanno realmente parlare di fotografia. Spesso, quando dialogo con persone che scrivono per i giornali, mi rendo conto che percepiscono la fotografia solo come una semplice illustrazione. In realtà, una fotografia è un testo con vari livelli di lettura, esattamente come la scrittura. Può essere un’immagine di cronaca o qualcosa di più complesso. La fotografia, a differenza dello scritto, si scorre rapidamente e offre una sintesi immediata del prima, del durante e del dopo. Purtroppo, la fotografia è spesso vittima di circoli chiusi: chi gestisce i progetti tende a circondarsi di persone simili, limitando le opportunità per gli altri. Un grande passo avanti è stato fatto grazie al Ministero della Cultura sotto Dario Franceschini, con gli Stati Generali della Fotografia. Finalmente, la fotografia è stata riconosciuta come arte, al pari del cinema e della pittura».
Self-publishing e editoria tradizionale
Negli ultimi anni la crisi della carta stampata ha avuto i suoi effetti anche sull’editoria fotografica. Si sono moltiplicate le autoproduzioni. «Mi considero un narratore a 360 gradi: teatro, disegno, scrittura e fotografia – dice Dario Coletti - sul tema del self-publishing ho opinioni contrastanti. Da un lato, ci sono lavori di grande livello che hanno un senso come portfolio; dall’altro, l’edizione curata da una casa editrice è tutta un’altra storia. Un editore è un mediatore: si appassiona al lavoro, dà indicazioni, seleziona e costruisce un progetto editoriale. Questo processo di selezione e cura non può essere replicato con il self-publishing. Tuttavia, per un giovane autore, è una palestra utile: anche dai lavori peggiori si può imparare, evolvendo verso qualcosa di migliore».